in Economia, Politica

Da quan­do Ama­zon ha annun­ci­a­to, all’inizio di set­tem­bre, la sua inten­zione di aprire un sec­on­do quarti­er gen­erale in Nord Amer­i­ca des­ti­na­to ad affi­an­care quel­lo di Seat­tle – pre­cisan­do di vol­er­lo inse­di­are in un’area met­ro­pol­i­tana con più di un mil­ione di abi­tan­ti, carat­ter­iz­za­ta da un ambi­ente favorev­ole alle imp­rese e in gra­do di attrarre e trat­tenere tec­ni­ci di tal­en­to – decine di sin­daci e gov­er­na­tori degli Sta­ti Uni­ti sono in fib­ril­lazione.

In un Paese anco­ra alle prese con le ferite del­la grave crisi finanziaria inizia­ta nel 2007, a fare gola sono soprat­tut­to i cinque mil­iar­di di dol­lari di inves­ti­men­to e i 50mila nuovi posti di lavoro – con una ret­ribuzione media supe­ri­ore ai 100mila dol­lari all’anno – promes­si dal colos­so del com­mer­cio elet­tron­i­co. Così per diverse set­ti­mane i fun­zionari di molte ammin­is­trazioni han­no fat­to le ore pic­cole per met­tere a pun­to le rispet­tive can­di­da­ture.

Alla sca­den­za del 19 otto­bre ne sono state pre­sen­tate 238, alcune delle quali prove­ni­en­ti anche dal Cana­da. Nell’elenco fig­u­ra­no Sta­ti, dis­tret­ti, ter­ri­tori e cit­tà, tra cui l’in­gor­da Seat­tle, che dopo il pri­mo quarti­er gen­erale vor­rebbe aggiu­di­car­si anche il sec­on­do, e New York, la metropoli a stelle e strisce per antono­ma­sia, che sebbene sia noto­ri­a­mente già molto affol­la­ta è rius­ci­ta a indi­vid­uare qua­si sei mil­ioni di metri qua­drati di ter­reno, sud­di­visi in quat­tro aree, da met­tere a dis­po­sizione di Ama­zon. Per ingraziar­si il potente inter­locu­tore, la sera del 18 otto­bre la Grande Mela ha anche illu­mi­na­to con l’aran­cione del suo logo l’Em­pire State Build­ing, Times Square e molti altri edi­fi­ci di Man­hat­tan.

Il sin­da­co di Boston, Mar­ty Walsh, ha scel­to invece di accom­pa­gnare il doc­u­men­to di 218 pagine con cui la cap­i­tale del Mass­a­chu­setts ha for­mal­iz­za­to la pro­pria can­di­datu­ra con due video con­fezionati in modo molto pro­fes­sion­ale e una let­tera ind­i­riz­za­ta «con orgoglio ed entu­si­as­mo» a Jeff Bezos, fonda­tore, pres­i­dente e ammin­is­tra­tore del­e­ga­to del­l’azien­da di Seat­tle, in cui la cit­tà è defini­ta «la soluzione per­fet­ta per Ama­zon per costru­ire una comu­nità, creare oppor­tu­nità e portare avan­ti la sua mis­sione di cam­biare il mon­do». Come ha fat­to notare il Boston Mag­a­zine, nel­la can­di­datu­ra non si fa però alcun rifer­i­men­to alle agevolazioni fis­cali e agli altri incen­tivi eco­nomi­ci che potreb­bero essere mes­si sul piat­to. Un’omis­sione tem­po­ranea, come ha las­ci­a­to inten­dere il sin­da­co, in atte­sa di capire se la la cit­tà del­la cos­ta atlanti­ca abbia davvero qualche chance di spun­tar­la.

Una delle scatole extralarge di Amazon installate a Birmingham, in Alabama
Una delle scat­ole extralarge di Ama­zon instal­late a Birm­ing­ham, in Alaba­ma

Nel ten­ta­ti­vo di atti­rare l’at­ten­zione e ottenere un po’ di vis­i­bil­ità a buon mer­ca­to, altre cit­tà meno famose di New York e Boston si sono spinte decisa­mente oltre, sfog­gian­do più inven­ti­va e/o sprez­zo del ridi­co­lo. A Tuc­son han­no avu­to la pen­sa­ta di spedire in rega­lo a Bezos un cac­tus gigante alto più di sei metri,  per comu­ni­care il mes­sag­gio che nel­la cit­tà del­l’Ari­zona c’è spazio per crescere nel lun­go peri­o­do. La pianta gras­sa, però, è sta­ta subito dirot­ta­ta ver­so un museo di sto­ria nat­u­rale per­ché, han­no spie­ga­to da Seat­tle, «purtrop­po non pos­si­amo accettare regali». Almeno non  quel­li che con­tengono spine.

Il con­siglio comu­nale del­la pic­co­la Stonecrest, in Geor­gia, ha approva­to un piano che prevede di rib­at­tez­zare 140 ettari del suo ter­ri­to­rio con il nome “City of Ama­zon”, se la multi­nazionale deciderà di inse­di­are lì la sua sec­on­da casa. A Birm­ing­ham, in Alaba­ma, han­no scel­to invece di puntare su un’in­stal­lazione artis­ti­ca, col­lo­can­do in alcune vie delle fedelis­sime ripro­duzioni gigan­ti delle scat­ole di Ama­zon e invi­tan­do i res­i­den­ti a uti­liz­zarle da sfon­do per i pro­pri self­ie, da alle­gare ai mes­sag­gi inviati per sostenere l’of­fer­ta pre­sen­ta­ta dal­la cit­tà.

La vet­ta più alta — o più bas­sa, a sec­on­da del pun­to di vista – è sta­ta prob­a­bil­mente toc­ca­ta dal pri­mo cit­tadi­no di Kansas City, Sly James, che ha avu­to la bril­lante idea di com­prare sul sito di e‑commerce un migli­aio di prodot­ti di ogni genere, scriven­do altret­tante recen­sioni in cui ven­gono tes­sute le lodi del­la sua cit­tà. Poi si è fat­to immor­ta­lare sedu­to alla scriva­nia nel suo uffi­cio, cir­conda­to dalle scat­ole degli arti­coli acquis­ta­ti con il logo di Ama­zon in bel­la vista, e ha posta­to la foto su Twit­ter.

Anche la cit­tà di Frisco, a mez­z’o­ra di auto da Dal­las, si è affi­da­ta a Twit­ter per postare un videomes­sag­gio con­fezion­a­to come un vero e pro­prio spot, e anche in questo caso il pro­tag­o­nista asso­lu­to è il pri­mo cit­tadi­no, Jeff Cheney, che indos­sa sen­za appar­ente imbaraz­zo i pan­ni del tele­im­bon­i­tore. In una delle prime inquad­ra­ture, cir­conda­to da decine di per­sone sor­ri­den­ti men­tre tiene in mano l’im­man­ca­bile scat­o­la di car­tone con logo in favore di tele­cam­era, si riv­olge diret­ta­mente al gigante del com­mer­cio online: «Ama­zon, vogliamo crescere insieme a te!». Per rius­cir­ci, la cit­tà tex­ana ha mes­so gener­i­ca­mente a dis­po­sizione il 40% del suo ter­ri­to­rio. «Al momen­to è edi­fi­ca­to solo il 60% — ha spie­ga­to Cheney — quin­di abbi­amo un sac­co di spazio disponi­bile».

Come sot­to­lin­eato da Nel­lie Bowles sul New York Times, le vide­o­let­tere dei sin­daci ad Ama­zon — che in alcu­ni casi sarebbe più cor­ret­to definire video­sup­pliche — nelle  set­ti­mane che han­no pre­ce­du­to la sca­den­za del 19 otto­bre si sono molti­pli­cate, al pun­to da diventare un sot­to­genere di YouTube. Il 14 set­tem­bre Mark D. Boughton, pri­mo cit­tadi­no di Dun­bury, in Con­necti­cut, ne ha posta­ta una ind­i­riz­za­ta a Bezos in cui, dopo esser­si dichiara­to «un orgoglioso cliente», ha chiesto ad Alexa, l’as­sis­tente vir­tuale del gigante del­l’e-com­merce, quale fos­se la cit­tà ide­ale per il sec­on­do quarti­er gen­erale. La rispos­ta? Dan­bury, of course!

Alexa sem­bra essere sta­ta pro­gram­ma­ta per com­piacere il più pos­si­bile i pro­pri inter­locu­tori, per­ché quan­do la sin­da­ca di Wash­ing­ton D.C., Muriel Bows­er, le ha chiesto dove si sarebbe dovu­ta inse­di­are «l’azien­da più inter­es­sante del mon­do», la rispos­ta è sta­ta: «Ovvi­a­mente Wash­ing­ton!».

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Ci sarebbe da rid­ere, o almeno sor­rid­ere, se la trasfor­mazione di sin­daci elet­ti dal popo­lo in piazz­isti e men­di­can­ti, pron­ti a tut­to per entrare nelle gra­zie del gigante Ama­zon, non fos­se riv­e­la­trice del­lo sta­to comatoso in cui ver­sa la democrazia nel sis­tema cap­i­tal­is­ti­co attuale. Un sis­tema che con­sente a una mega cor­po­ra­tion di lan­cia­re un’as­ta, met­ten­do centi­na­ia di ammin­is­trazioni locali l’u­na con­tro l’al­tra con l’o­bi­et­ti­vo di strap­pare l’of­fer­ta migliore, sot­to for­ma di incen­tivi o sgravi fis­cali nel­l’or­dine di qualche mil­iar­do di dol­lari.

Quel­lo delle agevolazioni fis­cali è uno dei capi­toli più impor­tan­ti e con­tro­ver­si di ques­ta sto­ria. Non è un seg­re­to, infat­ti, che incider­an­no tan­tis­si­mo sul­la deci­sione finale di Ama­zon, men­tre res­ta un mis­tero quante risorse pub­bliche siano pronte a stanziare le sin­gole ammin­is­trazioni per ren­dere più allet­tante la pro­pria offer­ta. L’u­ni­ca eccezione è quel­la del New Jer­sey, dove il gov­er­na­tore Chris Christie ha offer­to ben sette mil­iar­di di dol­lari di incen­tivi in cam­bio del­l’aper­tu­ra del nuo­vo quarti­er gen­erale a Newark.

Neil deMause, autore di un arti­co­lo molto det­taglia­to e altret­tan­to criti­co sul­l’as­ta lan­ci­a­ta da Ama­zon, nel cor­so di un’inter­vista radio­fon­i­ca ha sot­to­lin­eato la poca trasparen­za che carat­ter­iz­za tut­to il proces­so. Anche se la pos­ta in gio­co è un’enorme quan­tità di denaro pub­bli­co, infat­ti, di ogni offer­ta «sap­pi­amo soltan­to quel­lo che le cit­tà e gli Sta­ti vogliono che sap­pi­amo». Tut­to il resto avviene a porte chiuse, all’in­sa­pu­ta dei cit­ta­di­ni, com­pre­si quel­li che presto o tar­di saran­no chia­mati a pagare — sot­to for­ma di un aumen­to delle tasse o di tagli ai servizi — il con­to del­l’­op­er­azione, che rischia di essere molto sala­to.

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Rispet­to a una gara pub­bli­ca, carat­ter­iz­za­ta da cri­teri rigi­di, regole chiare e offerte in bus­ta chiusa e anon­i­ma, quel­la pro­mossa da Ama­zon è una com­pe­tizione da Far West in cui tut­to è con­sen­ti­to, sen­za alcu­na garanzia per i parte­ci­pan­ti. Il Golia di Seat­tle, infat­ti, nei prossi­mi mesi potrà uti­liz­zare i sette mil­iar­di di dol­lari offer­ti dal New Jer­sey come cifra di rifer­i­men­to per bus­sare alla por­ta di uno degli altri con­tenden­ti e provare a strap­pare con­dizioni anco­ra più van­tag­giose, con ottime prob­a­bil­ità di rius­cir­ci. Non a caso la deci­sione sul­la local­ità in cui inse­di­are il nuo­vo quarti­er gen­erale sarà pre­sa, con cal­ma, soltan­to nel cor­so del 2018.

È quel­lo che il Wall Street Jour­nal, in un arti­co­lo del 19 otto­bre, ha defini­to «il mod­el­lo di busi­ness di Ama­zon», basato appun­to sug­li incen­tivi fis­cali e sul­la neces­sità di aiz­zare le cit­tà l’u­na con­tro l’al­tra per rius­cire a ottenere il pac­chet­to di sus­si­di pub­bli­ci più con­ve­niente. Un modus operan­di che Art Rol­nick, econ­o­mista all’U­ni­ver­sità del Min­neso­ta cita­to nel pez­zo di Nel­lie Bowles del 25 set­tem­bre, ha defini­to meno diplo­mati­ca­mente «un ricat­to». Nel­lo stes­so arti­co­lo, Matthew Gard­ner, del­l’In­sti­tute on Tax­a­tion and Eco­nom­ic Pol­i­cy (Itep), un think tank indipen­dente che si occu­pa delle politiche fis­cali statali e fed­er­ali, ha liq­uida­to l’inizia­ti­va come un «dog and pony show», una messin­sce­na. «Ama­zon vuole qual­cosa per niente — ha spie­ga­to — Vor­rebbe un pac­chet­to di agevolazioni fis­cali in cam­bio di qual­cosa che avrebbe real­iz­za­to comunque».

La stes­sa stra­da, del resto, è già sta­ta per­cor­sa con suc­ces­so da Tes­la, azien­da spe­cial­iz­za­ta in veicoli elet­tri­ci ad alte prestazioni e all’a­van­guardia anche nel­lo svilup­po delle auto sen­za con­du­cente, che nel 2013 ha lan­ci­a­to un’as­ta dura­ta 10 mesi per indi­vid­uare la local­ità in cui aprire la sua Gigafac­to­ry, una megafab­bri­ca di bat­terie agli ioni di litio che dovrebbe dare lavoro a cir­ca 6.500 per­sone. Alla fine la scelta è cadu­ta sul Neva­da, che ha il sec­on­do peg­gior sis­tema educa­ti­vo di tut­ti gli Sta­ti Uni­ti ma ha offer­to a Tes­la agevolazioni fis­cali pari a cir­ca 1,3 mil­iar­di di dol­lari. Nel frat­tem­po l’azien­da di Elon Musk, alle prese con un vol­ume di ven­dite delu­dente e una vor­agine nei bilan­ci, a metà otto­bre ha annun­ci­a­to centi­na­ia di licen­zi­a­men­ti tra i suoi cir­ca 33mila dipen­den­ti.

Nel­la patria del­la lib­era impre­sa, spes­so insof­fer­ente rispet­to a ogni for­ma di rego­la­men­tazione, i gigan­ti del tur­bo­cap­i­tal­is­mo con­tin­u­ano a essere liberi di oper­are a pro­prio piaci­men­to, solo che per far­lo adesso bat­tono cas­sa bus­san­do alla por­ta del pub­bli­co, che di soli­to si adegua con entu­si­as­mo, sen­za bat­tere ciglio. Come ha spie­ga­to Greg LeRoy, fonda­tore e diret­tore esec­u­ti­vo di Good Jobs First, un cen­tro di ricer­ca non prof­it spe­cial­iz­za­to nel mon­i­tor­ag­gio dei sus­si­di pub­bli­ci per il lavoro, quel­lo dei mega-accor­di tra le aziende e le ammin­is­trazioni statali e locali, con una val­ore pari ad almeno 50 mil­ioni di dol­lari, negli Usa è un fenom­e­no sem­pre più dif­fu­so, che a par­tire dal­la grande crisi inizia­ta nel 2007 si è più che dupli­ca­to.

Il record per il pac­chet­to di sus­si­di pub­bli­ci più con­sis­tente mai asseg­na­to negli Usa — approva­to dopo un per­cor­so leg­isla­ti­vo dura­to soltan­to tre giorni per bat­tere sul tem­po la con­cor­ren­za di altri 10 con­tenden­ti — per il momen­to spet­ta anco­ra allo Sta­to di Wash­ing­ton, che nel 2013 ha con­ces­so alla Boe­ing agevolazioni fis­cali per 8,7 mil­iar­di di dol­lari, con l’o­bi­et­ti­vo di man­tenere e aumentare la forza lavoro imp­ie­ga­ta nel pro­prio ter­ri­to­rio nel set­tore aerospaziale. Una vol­ta pas­sa­ta all’in­cas­so, però, negli anni suc­ces­sivi la Boe­ing ha licen­zi­a­to più di 12mila dipen­den­ti, pari a cir­ca il 15% di quel­li occu­pati com­p­lessi­va­mente nel­lo Sta­to.

Articolo di Bloomberg Technology del 24 agosto 2017

Anco­ra più clam­oroso per cer­ti ver­si è il caso del­la Apple — attual­mente val­u­ta­ta, è il caso di ricor­dar­lo, più di 800 mil­iar­di di dol­lari — che alla fine di agos­to è rius­ci­ta a ottenere sgravi fis­cali pari a 208 mil­ioni di dol­lari in cam­bio del­la costruzione di due nuovi data cen­ter nei pres­si di Des Moines, in Iowa, che dovreb­bero dare lavoro a una cinquan­ti­na di per­sone. Cal­co­la­trice alla mano, ogni nuo­vo pos­to di lavoro costerà alle casse pub­bliche la bellez­za di più di quat­tro mil­ioni di dol­lari. Per David Swen­son, econ­o­mista del­la Iowa State Uni­ver­si­ty, è «un rega­lo fat­to a un’azien­da stra­or­di­nar­i­a­mente ric­ca che non ha alcun sen­so, se non dal pun­to di vista di un politi­co». A mag­gior ragione negli Sta­ti Uni­ti, dove negli ulti­mi otto anni il tas­so di dis­oc­cu­pazione si è più che dimez­za­to, pas­san­do dal 10% del 2009 al 4,4% di oggi.

L’an­nun­cio del­l’as­ta per il nuo­vo quarti­er gen­erale di Ama­zon è avvenu­to negli stes­si giorni in cui il Wis­con­sin, con la benedi­zione del pres­i­dente Trump, ha approva­to la con­ces­sione di incen­tivi per tre mil­iar­di di dol­lari alla Fox­conn, azien­da di Tai­wan spe­cial­iz­za­ta nel­la pro­duzione di com­po­nen­ti elet­tron­i­ci, che si è impeg­na­ta a inve­stire 10 mil­iar­di di dol­lari per aprire nel­lo Sta­to entro il 2020 una fab­bri­ca di scher­mi LCD che dovrebbe imp­ie­gare tra le trem­i­la e le 13mila per­sone.

Ipo­tiz­zan­do che si arrivi davvero alla creazione di 13mila posti — ed è lecito dubitarne, vis­to che molti inves­ti­men­ti sim­ili annun­ciati dal­la Fox­conn negli ulti­mi anni in varie par­ti del mon­do devono anco­ra mate­ri­al­iz­zarsi — per cias­cuno di essi il cos­to annuale a cari­co del­lo Sta­to sarà com­pre­so tra i 15mila e i 19mila dol­lari. Sec­on­do il Wis­con­sin Leg­isla­tive Fis­cal Bureau, saran­no nec­es­sari cir­ca 25 anni per recu­per­are i costi sostenu­ti, ma ques­ta sti­ma potrebbe anche pec­ca­re di ottimis­mo.

Il prob­le­ma, come ha scrit­to sul Los Ange­les Times il pre­mio Pulitzer Michael Hiltzik com­men­tan­do la vicen­da degli incen­tivi con­ces­si alla Apple in Iowa, è che i gov­erni statali e locali non con­ducono qua­si mai delle anal­isi costi-ben­efi­ci per deter­minare il loro val­ore, tranne che a pos­te­ri­ori, quan­do i sol­di sono già sta­ti ero­gati. Anche dal­l’al­tra parte del­l’At­lanti­co, insom­ma, i politi­ci sem­bra­no essere inter­es­sati soprat­tut­to ai van­tag­gi per­son­ali che pos­sono ricavare da questi prog­et­ti nel breve peri­o­do, sot­to for­ma di vis­i­bil­ità e con­sen­so, sen­za pre­oc­cu­par­si delle con­seguen­ze sociali ed eco­nomiche che avran­no nel lun­go peri­o­do.

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«Tra gli esper­ti di svilup­po eco­nom­i­co è dif­fusa la con­vinzione che questo tipo di incen­tivi di soli­to rap­p­re­sen­ti uno spre­co di sol­di per le ammin­is­trazioni statali e cit­ta­dine — ha spie­ga­to all’Asso­ci­at­ed Press Marc Levine, diret­tore del Cen­ter for Eco­nom­ic Devel­op­ment del­l’U­ni­ver­sità del Wis­con­sin — Nel lun­go peri­o­do non pro­ducono nes­sun ben­efi­cio eco­nom­i­co sig­ni­fica­ti­vo, cer­ta­mente non a liv­el­lo nazionale». L’ac­cor­do rag­giun­to con la Fox­conn per l’aper­tu­ra del nuo­vo sta­bil­i­men­to nel Mid­west ha per­me­s­so, però, a Don­ald Trump di pre­sen­tar­si davan­ti alle tele­camere a riven­di­care l’im­peg­no del­la sua ammin­is­trazione per riportare i posti di lavoro negli Sta­ti Uni­ti, come ave­va promes­so durante la cam­pagna elet­torale che lo ha con­dot­to nel­lo Stu­dio Ovale.

Una delle lezioni che si rica­vano da questi prece­den­ti è che le ammin­is­trazioni pub­bliche, nel momen­to in cui accettano di far­si con­cor­ren­za a vicen­da per rius­cire a sot­to­scri­vere un mega-accor­do con la cor­po­ra­tion di turno, sono des­ti­nate a soc­combere. Greg LeRoy lo definisce «il lato oscuro del fed­er­al­is­mo cos­ti­tuzionale», che in una dinam­i­ca di potere asim­met­ri­ca con­sente alle gran­di aziende di gio­care a pro­prio piaci­men­to con gli Sta­ti e le cit­tà, «men­tre chi ha il com­pi­to di gestire i fon­di pub­bli­ci si limi­ta a fare quel­lo che gli viene det­to di fare: offrire più sus­si­di».

Gli uni­ci ammin­is­tra­tori che sem­bra­no esserne con­sapevoli, però, sono quel­li di San Anto­nio, in Texas, che ad Ama­zon han­no rispos­to «no, gra­zie». In una let­tera aper­ta ind­i­riz­za­ta a Bezos, il sin­da­co Ron Niren­berg e il giu­dice del­la con­tea di Bexar, Nel­son Wolff, han­no sot­to­lin­eato, infat­ti, che l’as­ta lan­ci­a­ta dal­la cor­po­ra­tion di Seat­tle ha scate­na­to «una guer­ra al rial­zo tra Sta­ti e cit­tà» alla quale San Anto­nio non intende pren­dere parte. «È dif­fi­cile immag­inare che un’azien­da all’a­van­guardia come Ama­zon non abbia già selezion­a­to la sua sede preferi­ta», han­no aggiun­to, pre­cisan­do anche che «sven­dere tut­to alla cieca non è nel nos­tro stile».

La serenata dei sindaci Usa al capo di Amazon, Jeff Bezos, nell'illustrazione di Gary Hovland per il New York Times
La ser­e­na­ta dei sin­daci Usa a Jeff Bezos nel­l’il­lus­trazione real­iz­za­ta da Gary Hov­land per il New York Times

Lo zelo e l’en­tu­si­as­mo con cui molte altre ammin­is­trazioni han­no invece sro­to­la­to tap­peti rossi a Bezos & C. — in una sor­ta di «cor­sa ver­so il Sacro Graal», come l’ha rib­at­tez­za­ta il sin­da­co di Ottawa, Jim Wat­son — appaiono anco­ra più sopra le righe se si con­sid­era il fat­to che i ben­efi­ci del­l’­op­er­azione per ora sono solo sul­la car­ta. Quel­la intes­ta­ta di Ama­zon, tra l’al­tro. I 50mila nuovi posti di lavoro a tem­po pieno — e ad alto red­di­to — che dovreb­bero arrivare insieme al sec­on­do quarti­er gen­erale, per esem­pio, sono indub­bi­a­mente tan­ti, almeno in relazione a un’u­ni­ca azien­da, ma questo vol­ume di assun­zioni sarà rag­giun­to — se mai lo sarà davvero — non pri­ma di 10–15 anni.

Nuovi posti di lavoro a parte, il fas­ci­no eserci­ta­to da Ama­zon su molti cit­ta­di­ni e ammin­is­tra­tori pub­bli­ci si può spie­gare anche con il boom delle aziende del soft­ware e del web — carat­ter­iz­za­to in questi anni da bril­lan­ti per­for­mance in Bor­sa, utili in cresci­ta e otti­ma liq­uid­ità — che ha fini­to per far apparire obso­leti gli altri set­tori pro­dut­tivi. Come ha illus­tra­to bene Katy Stein­metz in un pez­zo pub­bli­ca­to sul set­ti­manale Time, nel­la percezione col­let­ti­va l’in­dus­tria tec­no­log­i­ca oggi è uni­ver­salmente con­sid­er­a­ta «la spina dor­sale eco­nom­i­ca del futuro».

Tra i poten­ziali van­tag­gi che derivereb­bero dal­l’ospitare il nuo­vo quarti­er gen­erale di Ama­zon, sec­on­do l’e­con­o­mista Enri­co Moret­ti, c’è l’ef­fet­to attrat­ti­vo che le gran­di imp­rese del­l’hi-tech ten­dono a esercitare su insie­mi di aziende più pic­cole. «La sua ricer­ca — ha pre­cisato Stein­metz — è giun­ta anche alla con­clu­sione che ogni nuo­va assun­zione in questo set­tore por­ta alla creazione di cir­ca altri quat­tro posti di lavoro nel­la stes­sa comu­nità, dai tas­sisti agli inseg­nan­ti».

Seguen­do il ragion­a­men­to di Moret­ti, l’im­pres­sione è che, sen­za la pesante zavor­ra delle agevolazioni fis­cali,  il nuo­vo quarti­er gen­erale del colos­so del­l’e-com­merce potrebbe davvero fare la dif­feren­za in pos­i­ti­vo nei ter­ri­tori più depres­si e meno urban­iz­za­ti del Paese, dove il tas­so di indus­tri­al­iz­zazione è più bas­so e quel­lo di dis­oc­cu­pazione supe­ri­ore alla media nazionale. Cer­ta­mente non in una metropoli come New York che, come ha sot­to­lin­eato Adam Fried­man, non ha alcun bisog­no dei nuovi posti di lavoro promes­si da Ama­zon ma deve sem­mai aiutare a crescere le imp­rese già pre­sen­ti sul suo ter­ri­to­rio.

D’al­tro can­to, gli stes­si cri­teri che accom­pa­g­na­vano l’annun­cio di inizio set­tem­bre — tra cui l’ac­ces­so diret­to del nuo­vo quarti­er gen­erale alla rete fer­roviaria e met­ro­pol­i­tana, la pre­sen­za di un aero­por­to inter­nazionale nel rag­gio di 45 minu­ti e una super­fi­cie iniziale di almeno 50mila metri qua­drati, con la pos­si­bil­ità di espan­der­si fino a 750mila metri qua­drati dopo il 2027 — sem­bra­no esclud­ere in parten­za le aree degli Sta­ti Uni­ti che potreb­bero ottenere più ben­efi­ci dal­l’­op­er­azione.

I requisiti principali indicati da Amazon per la scelta della località in cui insediare il suo nuovo quartier generale
I req­ui­si­ti prin­ci­pali indi­cati da Ama­zon nel doc­u­men­to dif­fu­so all’inizio di set­tem­bre per la scelta del­la local­ità in cui inse­di­are il suo nuo­vo quarti­er gen­erale in Nord Amer­i­ca

Oltre alle agevolazioni fis­cali, nel­la colon­na delle uscite devono essere con­teggiati anche i costi diret­ti legati all’au­men­to del­la popo­lazione nel­la local­ità selezion­a­ta. Dan­do per scon­ta­to che Ama­zon non potrà reclutare tut­ti i dipen­den­ti del suo sec­on­do quarti­er gen­erale tra i cit­ta­di­ni che già vi risiedono, infat­ti, bisogna met­tere nel con­to le risorse nec­es­sarie a real­iz­zare le infra­strut­ture e i servizi pub­bli­ci des­ti­nati ai nuovi abi­tan­ti e ai loro famil­iari, dal­l’as­sun­zione degli inseg­nan­ti che dovran­no edu­care i loro figli a quel­la dei poliziot­ti che dovran­no vig­i­lare sulle zone in cui vivono, dal­l’adegua­men­to del­la rete stradale alle altre opere di urban­iz­zazione.

Come inseg­na l’es­pe­rien­za di Seat­tle, alla voce costi sociali van­no inoltre inserite le ricadute neg­a­tive che l’ar­ri­vo di migli­a­ia di lavo­ra­tori con un red­di­to supe­ri­ore alla media avrà su una parte del­la popo­lazione locale. Sul suo sito, Ama­zon sot­to­lin­ea che cir­ca il 20% degli oltre 40mila dipen­den­ti del suo quarti­er gen­erale, aper­to in cen­tro nel 2010, risiede molto vici­no al pos­to di lavoro. Tan­to vici­no da poter­ci andare ogni giorno a pie­di.

Il loro arri­vo, però, ha provo­ca­to un’im­pen­na­ta del cos­to del­la vita. I prezzi degli allog­gi, in par­ti­co­lare, sono sal­i­ti alle stelle, costrin­gen­do una parte dei res­i­den­ti a bas­so red­di­to a trasferir­si lon­tano dal­la cit­tà. Solo nel­l’ul­ti­mo anno, il val­ore delle case è aumen­ta­to di oltre l’11 per cen­to, men­tre gli affit­ti nel­l’ar­co degli ulti­mi sei anni sono cresciu­ti del 57%. Oggi gli inquili­ni pagano in media 1.749 dol­lari al mese, 635 in più rispet­to al 2011.

L’au­men­to del numero dei res­i­den­ti ha avu­to degli effet­ti neg­a­tivi anche sul­la via­bil­ità, facen­do entrare Seat­tle nel­la top ten delle peg­giori cit­tà degli Sta­ti Uni­ti per ingorghi stradali: nel 2016, come ha ril­e­va­to una ricer­ca pub­bli­ca­ta lo scor­so feb­braio, i suoi auto­mo­bilisti han­no trascor­so in media 55 ore imbot­tigliati nel traf­fi­co, con un cos­to per la cit­tà sti­ma­to com­p­lessi­va­mente in cir­ca due mil­iar­di di dol­lari.

Non van­no poi dimen­ti­cate le critiche riv­olte all’or­ga­niz­zazione del lavoro priv­i­le­gia­ta da Ama­zon, carat­ter­iz­za­ta da «un con­trol­lo repres­si­vo delle man­sioni e turni impos­si­bili», come ha spie­ga­to il 20 otto­bre in un’in­ter­vista al Ven­erdì di Repub­bli­ca l’e­con­o­mista Mar­ta Fana, autrice del libro Non è lavoro, è sfrut­ta­men­to (Lat­erza), un’inchi­es­ta sul­la con­dizione del lavoro in Italia che, iro­nia del­la sorte, su Amazon.it è accom­pa­g­na­ta da ottime recen­sioni.

«La set­ti­mana lavo­ra­ti­va può essere anche di 60 o addirit­tura di 80 ore, e l’in­ten­sità che carat­ter­iz­za le man­sioni è il vero fat­tore di ansia e malat­tia per i lavo­ra­tori — scrive Fana a propos­i­to del mag­a­zz­i­no di Cas­tel San Gio­van­ni, il più grande mag­a­zz­i­no europeo del­l’azien­da di Bezos — Il con­trol­lo sui tem­pi è totale, ogni azione viene reg­is­tra­ta, cronome­tra­ta. Non rius­cire a man­tenere i rit­mi imposti o una riduzione del­la pro­pria pro­dut­tiv­ità com­por­ta un deman­sion­a­men­to imme­di­a­to. Ernie, attac­chi di pan­i­co, psi­co­far­ma­ci sono i com­pag­ni di stra­da di questi lavo­ra­tori».

Il reportage del New York Times del 15 agosto 2015

In un lun­go reportage pub­bli­ca­to nel 2015 sul New York Times, Jodi Kan­tor e David Stre­it­fel­daug ave­vano già mes­so in luce come spin­gere i dipen­den­ti oltre i pro­pri lim­i­ti sia parte inte­grante del­la “filosofia del lavoro” del­l’azien­da di Seat­tle, che incor­ag­gia i suoi lavo­ra­tori a smontare le idee dei col­leghi nelle riu­nioni, a lavo­rare a lun­go e fino a tar­di — con tan­to di email spedite dopo mez­zan­otte segui­te a stret­to giro da mes­sag­gi di testo che sol­lecitano una rispos­ta — e a man­tenere stan­dard di rendi­men­to «irra­gionevol­mente alti», come sono defin­i­ti nei prin­cipi di lead­er­ship, i 14 coman­da­men­ti det­tati da Bezos, mod­er­no Mes­sia del­la ven­di­ta per cor­rispon­den­za.

Può dar­si che questo approc­cio sia uno dei motivi all’o­rig­ine del suc­ces­so com­mer­ciale di Ama­zon. Quel­lo che è cer­to è che sot­to­pone i suoi dipen­den­ti a una costante pres­sione psi­co­log­i­ca e a pesan­ti carichi di lavoro, che si tra­ducono in un turnover del per­son­ale molto fre­quente. Un’indagine con­dot­ta nel 2013 da PayScale, azien­da che si occu­pa del­l’anal­isi dei salari, ha indi­ca­to in un anno la dura­ta media degli impieghi, una delle più basse tra le imp­rese di For­tune 500, la lista annuale che clas­si­fi­ca le 500 mag­giori imp­rese soci­etarie statu­niten­si, mis­urate sul­la base del loro fat­tura­to. La stes­sa Ama­zon ha pre­cisato che solo il 15% del suo per­son­ale ha super­a­to la boa dei cinque anni.

Chi riesce a resistere, spie­gano Kan­tor e Stre­it­fel­daug, spes­so finisce per diventare un “Ama­zon­ian” a tem­po pieno, viven­do in sim­biosi con l’azien­da e trascu­ran­do tut­to il resto. È il caso, per esem­pio, di Dina Vac­cari, assun­ta nel 2008 per vendere carte rega­lo ad altre imp­rese: «Mi è cap­i­ta­to di non dormire per quat­tro giorni di segui­to — ha con­fida­to ai reporter del quo­tid­i­ano newyorkese — Questi prodot­ti era­no i miei bam­bi­ni e ho fat­to tut­to quel­lo che pote­vo per garan­tire il loro suc­ces­so». Fino al pun­to da pagare un col­lab­o­ra­tore in India con i pro­pri sol­di, e sen­za l’ap­provazione dei suoi supe­ri­ori, per rius­cire a pro­durre anco­ra più risul­tati.

Molti altri, invece, non reg­gono a lun­go. Lavo­ra­tri­ci e lavo­ra­tori che han­no sof­fer­to di can­cro, abor­ti spon­tanei o altre crisi per­son­ali han­no rac­con­ta­to di essere sta­ti val­u­tati ingius­ta­mente o rimossi dai rispet­tivi incar­ichi sen­za che fos­se con­ces­so loro il tem­po nec­es­sario per rimet­ter­si in car­reg­gia­ta. «Quan­do non sei in gra­do di dare tut­ta te stes­sa per 80 ore alla set­ti­mana ti con­sid­er­a­no una grande debolez­za», ha spie­ga­to Mol­ly Jay, un’ex dipen­dente costret­ta a ridurre il pro­prio orario di lavoro per assis­tere il padre mala­to ter­mi­nale, pri­ma di pren­dere la deci­sione di licen­ziar­si.

Uno dei casi che han­no fat­to notizia è quel­lo che nel 2011 ha riguarda­to un mag­a­zz­i­no del­la Penn­syl­va­nia ori­en­tale, dove gli operai era­no costret­ti a lavo­rare in un ambi­ente con tem­per­a­ture vicine ai 40 gra­di, men­tre alcune ambu­lanze atten­de­vano all’ester­no per prestare soc­cor­so a quel­li tra loro che di vol­ta in vol­ta perde­vano conoscen­za. Dopo la pub­bli­cazione di un’inchi­es­ta da parte del gior­nale locale, Ama­zon si è final­mente decisa a instal­lare dei con­dizion­a­tori d’aria.

L'articolo del Washington Post del 19 ottobre 2017

Sto­rie come queste stri­dono parec­chio con i volti sor­ri­den­ti e le dichiarazioni com­piaciute che affol­lano i video auto­cel­e­bra­tivi del­l’azien­da e gius­ti­f­i­cano più di una per­p­lessità rispet­to all’op­por­tu­nità di for­ag­gia­re con gen­erosi sus­si­di pub­bli­ci un mod­el­lo lavo­ra­ti­vo di questo tipo. Non sem­bra avere molti dub­bi, invece, il Wash­ing­ton Post, che in un arti­co­lo di Jonathan O’Con­nell del 19 otto­bre ha sot­to­lin­eato come l’ar­ri­vo di Ama­zon abbia provo­ca­to «un boom eco­nom­i­co a Seat­tle, por­tan­do alla creazione di più di 40mila posti di lavoro in una cit­tà nota per la cate­na di caf­fet­terie Star­bucks e i fan dei Sea­hawks», la squadra locale di foot­ball amer­i­cano.

Dopo aver seg­nala­to alcu­ni dei prob­le­mi legati alla pre­sen­za ingom­brante del gigante del com­mer­cio online — come il boom del cos­to degli allog­gi, che due anni fa ha por­ta­to alla dichiarazione del­lo sta­to di emer­gen­za per i sen­za tet­to — O’Con­nell ha sot­to­lin­eato che «la sua cresci­ta ha trasfor­ma­to un’area indus­tri­ale trascu­ra­ta a nord del cen­tro cit­tà in un hub di gio­vani lavo­ra­tori e ha fat­to di ques­ta regione, sul­la scia di Microsoft, la local­ità più impor­tante del­la Inter­net econ­o­my al di fuori dal­la Sil­i­con Val­ley».

«Ama­zon — ha aggiun­to — ha con­tribuito all’e­cono­mia locale con 30 mil­iar­di di dol­lari e fino ad altri 55 mil­iar­di in ben­efi­ci indi­ret­ti». Di con­seguen­za, «la dis­oc­cu­pazione nel­l’area di Seat­tle è al 3,7 per cen­to, sot­to la media nazionale del 4,4 per cen­to». In un altro pez­zo pub­bli­ca­to qualche giorno dopo, lo stes­so gior­nal­ista ha rib­a­di­to che «per adeguare la cit­tà alla cresci­ta del­l’azien­da, i con­tribuen­ti han­no finanzi­a­to miglio­ra­men­ti per centi­na­ia di mil­ioni di dol­lari, anche se Ama­zon ha con­tribuito diret­ta­mente all’e­cono­mia locale con 30 mil­iar­di di dol­lari».

L’assen­za del­l’indi­cazione delle fonti dei dati citati nei due arti­coli ha atti­ra­to l’at­ten­zione di Fair (Fair­ness and Accu­ra­cy in Report­ing), asso­ci­azione che si occu­pa di mon­i­torare la qual­ità del­l’in­for­mazione a stelle e strisce, che ha fat­to notare come i 30 mil­iar­di di dol­lari di inves­ti­men­ti diret­ti e i 55 mil­iar­di di ricadute indi­rette non siano altro che la som­ma di alcune voci con­tenute in un comu­ni­ca­to stam­pa rilas­ci­a­to dal­la stes­sa Ama­zon. Rispon­den­do a una doman­da che gli è sta­ta pos­ta via Twit­ter, lo ha ammes­so anche O’Con­nell, che ha indi­ca­to come fonte la quar­ta pag­i­na del doc­u­men­to con cui l’azien­da ha aper­to l’as­ta per il suo nuo­vo quarti­er gen­erale.

I dati sugli investimenti a Seattle citati dal Washington Post sono la somma di quelli contenuti in un comunicato stampa di Amazon
Il con­fron­to tra il comu­ni­ca­to stam­pa di Ama­zon e i dati citati negli arti­coli del Wash­ing­ton Post del 19 e 23 otto­bre

Il quo­tid­i­ano del­la cap­i­tale Usa, del resto, non è più il gior­nale che nel 1972, con l’inchi­es­ta di Bob Wood­ward e Carl Bern­stein, scop­er­chiò il pen­tolone del Water­gate, provo­can­do le dimis­sioni del pres­i­dente Nixon. Da quan­do nel 2013 è sta­to acquis­ta­to per 250 mil­ioni da Jeff Bezos — che pro­prio nelle ultime set­ti­mane ha ricon­quis­ta­to la coro­na di uomo più ric­co del mon­do gra­zie a un pat­ri­mo­nio per­son­ale di oltre 90 mil­iar­di di dol­lari — in più di un caso ha dato l’im­pres­sione di com­por­tar­si come una sor­ta di house organ di Ama­zon, anche se a det­ta del diret­tore Mar­tin Baron il nuo­vo pro­pri­etario non ha mai mes­so boc­ca nelle scelte edi­to­ri­ali.

I tre Pinocchi rifilati dal Washington Post a Bernie Sanders

Uno di questi casi è l’at­tac­co sfer­ra­to a inizio otto­bre al sen­a­tore Bernie Sanders, uno dei bersagli predilet­ti del Wash­ing­ton Post, che si è vis­to rifi­lare dai suoi sol­er­ti fact check­er ben tre Pinoc­chi (in una scala da uno a quat­tro) pur aven­do det­to la ver­ità, come ammes­so tra le righe del­lo stes­so arti­co­lo. La “col­pa” del­l’ex sfi­dante di Hillary Clin­ton per la nom­i­na­tion demo­c­ra­t­i­ca alla Casa Bian­ca è sta­ta quel­la di aver ricorda­to, durante un inter­ven­to al West­min­ster Col­lege, in Mis­souri, che «non esiste alcu­na gius­ti­fi­cazione morale o eco­nom­i­ca per il fat­to che i sei uomi­ni più ric­chi del mon­do abbiano tan­ta ric­chez­za quan­to la metà più povera del­la popo­lazione mon­di­ale, 3,7 mil­iar­di di per­sone».

I sei uomini più ricchi del mondo nella lista dei miliardari di Forbes, aggiornata al settembre 2017
I sei uomi­ni più ric­chi del mon­do nel­la lista dei mil­iar­dari di Forbes, aggior­na­ta al set­tem­bre 2017. A fine otto­bre Jeff Bezos è ritor­na­to in pri­ma posizione, con un pat­ri­mo­nio per­son­ale sti­ma­to in più di 90 mil­iar­di di dol­lari

L’au­men­to del­la for­tu­na per­son­ale di Bezos è lega­to, ovvi­a­mente, alla cresci­ta di Ama­zon che — come seg­nala l’ul­ti­ma indagine annuale di Ricerche e Stu­di del Grup­po Medioban­ca sulle prin­ci­pali imp­rese multi­nazion­ali del mon­do — dopo anni di dominio del­la Microsoft, dal 2014 è la regi­na dei ricavi tra i gran­di grup­pi che oper­a­no preva­len­te­mente nel com­mer­cio elet­tron­i­co, nel­la pro­duzione di soft­ware e nei servizi Inter­net (social net­work, motori di ricer­ca, por­tali web). L’an­no scor­so l’azien­da di Seat­tle ha fat­tura­to 129 mil­iar­di di euro (+4,4% rispet­to al 2012), pari a qua­si un quar­to del totale del set­tore delle Web­Soft e a oltre la metà (52,5%) del giro d’af­fari del­l’e-com­merce.

Con i suoi 341mila dipen­den­ti Ama­zon è anche il pri­mo datore di lavoro tra i gigan­ti mon­di­ali del soft­ware e del web. Il numero dei suoi addet­ti nel­l’ul­ti­mo quin­quen­nio è aumen­ta­to del 286,2%, con un rit­mo di cresci­ta super­a­to soltan­to dalle cine­si Vip­shop, i cui dipen­den­ti nel 2016 era­no nove volte di più rispet­to al 2012, e JD.com, che nel­lo stes­so arco di tem­po li ha qua­dru­pli­cati. Per ogni 10 mil­ioni di euro di fat­tura­to Ama­zon imp­ie­ga 26 per­sone, con­tro le 50 delle multi­nazion­ali mon­di­ali del­la grande dis­tribuzione.

Dal­la ricer­ca di Medioban­ca emerge anche che tra il 2012 e il 2016, facen­do tas­sare due terzi del pro­prio utile nei cosid­det­ti par­a­disi fis­cali, le gran­di aziende del soft­ware e del web han­no elu­so com­p­lessi­va­mente 46 mil­iar­di di euro di imposte, che sal­go­no a 69 se si aggiunge alla lista anche Apple, che non è con­sid­er­a­ta una web com­pa­ny per­ché gen­era la mag­gior parte del pro­prio fat­tura­to nel­l’hard­ware. Il trend, tra l’al­tro, è in cresci­ta: dai sette mil­iar­di sot­trat­ti al fis­co nel 2012, infat­ti, si è pas­sati agli oltre 11 mil­iar­di di imposte risparmiati nel 2016.

Per le soci­età Web­Soft statu­niten­si, in par­ti­co­lare, l’aliquo­ta media di tas­sazione risul­ta essere del 19,5%, decisa­mente più bas­sa rispet­to a quel­la del 35% appli­ca­ta negli Usa. Gra­zie ad accor­di fis­cali con Pae­si come l’Ir­lan­da, i Pae­si Bassi e il Lussem­bur­go, fuori dai con­fi­ni nazion­ali, e in par­ti­co­lare in Europa, ver­sano infat­ti molte meno imposte, con un’aliquo­ta media pari a cir­ca il 10%.

Negli ulti­mi anni, però, la Com­mis­sione euro­pea ha inizia­to a met­tere in dis­cus­sione questi accor­di, con­sideran­doli alla stregua di aiu­ti di Sta­to mascherati, con­trari alle norme Ue. Dopo il caso ecla­tante del­la Apple, che sec­on­do Brux­elles deve ver­sare all’Ir­lan­da 13 mil­iar­di di euro per «ille­gali van­tag­gi fis­cali», anche Ama­zon è fini­ta nel miri­no per l’ac­cor­do di “tax rul­ing” rag­giun­to nel 2003 con il Lussem­bur­go, dove ha sede il suo quarti­er gen­erale in Europa, che nel­l’ar­co di un decen­nio le avrebbe per­me­s­so di risparmi­are cir­ca 300 mil­ioni di euro.

Se il dibat­ti­to sui costi e i ben­efi­ci derivan­ti dal­l’inse­di­a­men­to del nuo­vo quarti­er gen­erale di Ama­zon res­ta aper­to, alla luce di questi numeri risul­ta anco­ra più dif­fi­cile trovare una gius­ti­fi­cazione plau­si­bile per l’erogazione di sus­si­di pub­bli­ci a nove o, addirit­tura, dieci zeri a favore di un’azien­da che ha una cap­i­tal­iz­zazione di mer­ca­to supe­ri­ore ai 500 mil­iar­di di dol­lari, elude il paga­men­to delle tasse su una parte dei suoi utili ed è gui­da­ta dal­l’uo­mo più ric­co del mon­do.

Neil deMause, nel­l’ar­go­mentare le sue critiche all’as­ta lan­ci­a­ta da Ama­zon, ha rispolver­a­to il paragone con le Olimpia­di, che negli ulti­mi decen­ni, con le sole eccezioni di Los Ange­les (1984) e Atlanta (1996), si sono sem­pre riv­e­late un pes­si­mo affare per le casse pub­bliche dei Pae­si che le han­no orga­niz­zate. Allo stes­so modo, la local­ità scelta dal­la multi­nazionale di Seat­tle per ospitare il suo nuo­vo quarti­er gen­erale, ha spie­ga­to il gior­nal­ista newyorkese al micro­fono di Coun­ter­Spin, rischia di essere quel­la che ci rimet­terà di più, per­ché «se sei costret­to a sbor­sare mil­iar­di di dol­lari in cam­bio di 50mila posti di lavoro», che non arriver­an­no nem­meno tut­ti insieme ma solo nel­l’ar­co di almeno un decen­nio, «non è asso­lu­ta­mente pos­si­bile recu­per­are tut­ti i costi del­l’in­ves­ti­men­to».

Alla fine, dunque, a fare il vero affare potreb­bero essere tut­ti gli Sta­ti e le cit­tà che non con­clud­er­an­no l’af­fare con Ama­zon.

 icon-info-cir­cle  Il 23 novem­bre 2017 questo arti­co­lo è sta­to pub­bli­ca­to anche su Comune-info e il 27 novem­bre è sta­to seg­nala­to anche sul sito del­la rasseg­na stam­pa cul­tur­ale di Radio 3

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