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«Lo scri­vere è il frut­to di una grande sof­feren­za inte­ri­ore». Se non ricor­do male a pro­nun­cia­re ques­ta frase, che mi ha accom­pa­g­na­to come una colon­na sono­ra per l’ultimo quar­to di sec­o­lo, è Bar­ton Fink, il pro­tag­o­nista dell’omonimo film dei fratel­li Coen del 1991, inter­pre­ta­to da John Tur­tur­ro. Negli ulti­mi mesi, con l’avvicinarsi del 30esimo anniver­sario del­la strage dell’Heysel, l’ho ripetu­ta den­tro di me sem­pre più spes­so. Ques­ta sof­feren­za, infat­ti, quan­do si trat­ta di scri­vere dei miei ricor­di legati alla finale di Cop­pa dei Cam­pi­oni tra Juven­tus e Liv­er­pool del 29 mag­gio 1985, diven­ta aut­en­ti­co strazio.

La pri­ma vol­ta che ci sono rius­ci­to è sta­ta nel 2005, in occa­sione del ven­ten­nale, e solo per­ché mi sem­bra­va fos­se una ricor­ren­za trop­po impor­tante per las­cia­r­la pas­sare sot­to silen­zio. Il mio, almeno. Mi ero ripromes­so di fare altret­tan­to per il trenten­nale, ma rileggen­do quel­lo che ho scrit­to dieci anni fa mi sono accor­to di non avere molto da aggiun­gere.

Ormai se pen­so all’Heysel mi ven­gono in mente soprat­tut­to gli 11 anni di Andrea Casu­la, la vit­ti­ma più gio­vane, ma anche i 58 di Bar­bara Lus­ci, la più anziana, e la con­clu­sione, banale ma ugual­mente dolorosa, è che sen­za quel­la par­ti­ta tut­ti i mor­ti di quel­la sera avreb­bero potu­to essere anco­ra tra noi. Il modo migliore di ricor­dar­li cre­do sia evitare di trasfor­mar­li in mar­tiri juven­ti­ni, per­ché i mar­tiri scel­go­no con­sapevol­mente di morire per non abi­u­rare il pro­prio cre­do, men­tre chi era all’Heysel vol­e­va solo assis­tere a una par­ti­ta di cal­cio e parte­ci­pare a una grande fes­ta col­let­ti­va.

A trent’anni di dis­tan­za è doloroso con­statare come quel­la strage abbia inseg­na­to poco. La lezione è sta­ta cer­ta­mente istrut­ti­va per le forze dell’ordine, che dal­la ges­tione sceller­a­ta del­la sicurez­za nel vec­chio e fatis­cente sta­dio di Brux­elles han­no trat­to degli inseg­na­men­ti preziosi per il futuro. Sug­li spalti invece – come tes­ti­mo­ni­ano anche le cronache di questi ulti­mi giorni – non è cam­bi­a­to nul­la, e la memo­ria dell’Heysel soprav­vive, purtrop­po, soprat­tut­to negli striscioni e nei com­men­ti ver­gog­nosi di chi con­tin­ua a usare le vit­time di quel­la strage come un’arma di offe­sa da brandire con­tro la Juven­tus.

Quan­do il tifo per una squadra di cal­cio can­cel­la ogni resid­uo di pietà umana, res­ta solo la bar­barie. Vale per i 39 mor­ti dell’Heysel, ma anche per la trage­dia di Super­ga, per Vin­cen­zo Papar­el­li, Fil­ip­po Rac­i­ti, Mar­co Fonghes­si e i tan­ti altri nomi che com­pon­gono il lun­go elen­co delle vit­time degli sta­di. Tutte per­sone, esseri umani, pri­ma che tifosi.

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