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Quan­do i dati macro­eco­nomi­ci sono in cadu­ta lib­era e a salire sono soltan­to il tas­so di dis­oc­cu­pazione e il numero delle aziende fal­lite, gli annun­ci e le slide non bas­tano più. Se n’è accor­to anche Mat­teo Ren­zi, che infat­ti nel brac­cio di fer­ro sul­la rifor­ma del lavoro con l’op­po­sizione inter­na del Pd e i sin­da­cati — una pre­sen­za fis­sa nel­la hit parade dei suoi bersagli prefer­i­ti fin dai tem­pi delle prime effu­sioni con Mar­chionne — è tor­na­to a indos­sare i pan­ni del rot­tam­a­tore, gli stes­si che gli han­no con­sen­ti­to di pas­sare in pochi mesi da Palaz­zo Vec­chio a Palaz­zo Chi­gi.

Fin dalle sue prime mosse alla gui­da del gov­er­no, l’ex sin­da­co di Firen­ze ha dimostra­to di aver fat­to pro­prio uno dei prin­ci­pali inseg­na­men­ti di Berlus­coni: se devi dire una bugia, dil­la bene. Rispet­to all’ul­ti­mo gov­er­no Pro­di, che ave­va inizia­to subito a scav­ar­si da solo la fos­sa sceglien­do di puntare tutte le sue fiche su provved­i­men­ti impopo­lari e/o cervel­loti­ci come l’in­dul­to, la riduzione del cuneo fis­cale o quel­lo che è pas­sato alla sto­ria come “lo scip­po del Tfr”, il cen­trosin­is­tra a trazione ren­ziana ha infat­ti cam­bi­a­to ver­so davvero, priv­i­le­gian­do mes­sag­gi sem­pli­ci e imme­diati, ide­ali per con­quistare i favori del­l’opin­ione pub­bli­ca e i titoli di aper­tu­ra di quo­tid­i­ani e tg.

La tat­ti­ca — e a ben vedere anche buona parte dei con­tenu­ti — è la stes­sa adot­ta­ta dal cen­trode­stra di Berlus­coni, che una vol­ta tor­na­to al gov­er­no dopo la cadu­ta di Pro­di ave­va con­cen­tra­to il fuo­co del­la sua pro­pa­gan­da su alcu­ni con­cetti chi­ave, come la riduzione delle tasse, la sicurez­za (leg­gi crim­i­nal­iz­zazione degli immi­grati) e la cro­ci­a­ta con­tro i fan­nul­loni del­la pub­bli­ca ammin­is­trazione, con­dot­ta dal min­istro Brunet­ta a colpi di tor­nel­lo. Nel caso del Jobs Act, però, l’al­lie­vo Ren­zi sem­bra aver super­a­to il mae­stro Berlus­coni, con cui con­di­vide anche la predilezione per le metafore di stam­po calcis­ti­co, come quan­do si definisce «il cap­i­tano del­la squadra che lot­ta su ogni pal­lone» o si cruc­cia per «le dis­ug­uaglianze tra i lavo­ra­tori di serie A e quel­li di serie B».

Quan­do Susan­na Camus­so, per criti­care le inten­zioni del gov­er­no, ha tira­to in bal­lo Mar­garet Thatch­er non ave­va tut­ti i tor­ti. Se è palese, infat­ti, l’in­ten­zione del gov­er­no di facil­itare i licen­zi­a­men­ti, per ora non è altret­tan­to chiaro, tra le varie ques­tioni dai con­torni con­fusi in cantiere, in cosa con­sis­terà e a quan­to ammon­terà il sus­sidio di dis­oc­cu­pazione uni­ver­sale des­ti­na­to a sos­ti­tuire anche la cas­sa inte­grazione ordi­nar­ia e stra­or­di­nar­ia.

Per rin­car­are la dose, la seg­re­taria gen­erale del­la Cgil oltre alla lady di fer­ro avrebbe potu­to citare anche Ronald Rea­gan, già pres­i­dente del sin­da­ca­to degli attori che durante il suo pri­mo manda­to alla pres­i­den­za degli Sta­ti Uni­ti, all’inizio degli anni Ottan­ta, spez­zò le reni al sin­da­ca­to dei con­trol­lori di volo, licen­zian­done in un colpo solo oltre 11mila e sos­tituen­doli con per­son­ale prel­e­va­to dal­l’e­serci­to, che non ave­va il dirit­to di sci­op­er­are. Il prob­le­ma è che in entram­bi i casi si trat­ta di parag­o­ni da “vec­chia guardia”, per usare una delle ultime espres­sioni uscite dal cap­pel­lo da pres­ti­gia­tore di Ren­zi, che comu­ni­cano poco o nul­la alla mag­gio­ran­za degli ital­iani.

Il pres­i­dente del Con­siglio, al con­trario, nel suo videomes­sag­gio di rispos­ta da Palaz­zo Chi­gi — altro aspet­to che lo acco­mu­na al com­pag­no di merende del Pat­to del Nazareno — ha chiam­a­to in causa tre per­son­ag­gi immag­i­nari, rap­p­re­sen­ta­tivi di una platea molto più ampia di lavo­ra­tori, imme­di­ata­mente riconosci­bili da chi­unque: Mar­ta e Giuseppe, due lavo­ra­tori pre­cari oggi privi di tutele, e un anon­i­mo pic­co­lo arti­giano al quale «la ban­ca ha chiu­so tut­ti i pon­ti», cioè quelle cat­e­gorie «a cui non ha pen­sato nes­suno in questi anni», che sec­on­do la vul­ga­ta ren­ziana dovreb­bero essere le prime a ben­e­fi­cia­re del­la rifor­ma.

Del resto, fin dal­la scelta del nome Ren­zi si è riv­e­la­to molto abile a infioc­chettare l’en­nes­i­mo pac­co ris­er­va­to ai lavo­ra­tori. L’e­spres­sione “Jobs Act”, infat­ti, rap­p­re­sen­ta, allo stes­so tem­po, una striz­zati­na d’occhio ai suoi pun­ti di rifer­i­men­to politi­ci, l’ex pre­mier bri­tan­ni­co Tony Blair ma anche Barack Oba­ma, e la promes­sa di un “sog­no ital­iano” sul­la fal­sari­ga di quel­lo amer­i­cano. E pazien­za se la sua conoscen­za dell’inglese las­cia un po’ a desider­are e le tutele garan­tite alle maes­tranze d’oltreoceano non sono par­ti­co­lar­mente invidi­a­bili. Dopo le dosi mas­s­ic­ce di fic­tion ingur­gi­tate negli ulti­mi tre decen­ni, nel nos­tro Paese tut­to quel­lo che è a stelle e strisce è bel­lo a pre­scindere.

È con le “tutele cres­cen­ti” evo­cate a ogni piè sospin­to dalle falan­gi ren­ziane – sen­za par­ti­co­lari dis­tin­guo tra ren­ziani doc, ex frances­chini­ani o post-bersa­ni­ani – che la pro­pa­gan­da del nuo­vo Par­ti­to Demo­c­ra­ti­co rag­giunge però le sue vette più alte. Le tutele cres­cen­ti appaiono infat­ti come un provved­i­men­to-ossi­moro, vis­to che la con­quista di even­tu­ali e niente affat­to garan­ti­ti ben­efi­ci dovrebbe pas­sare attra­ver­so l’e­lim­i­nazione di qual­si­asi tutela nel­la parte iniziale del­la col­lab­o­razione. Nes­suno mette in dub­bio la neces­sità di una rifor­ma del mer­ca­to del lavoro ital­iano, in cui il ricor­so a con­trat­ti inter­mit­ten­ti di breve dura­ta è cresci­u­to espo­nen­zial­mente negli ulti­mi anni a scapi­to dei rap­por­ti di lavoro a tem­po inde­ter­mi­na­to, ma le tutele cres­cen­ti, per come sono state pre­sen­tate fino­ra, sem­bra­no des­ti­nate a non crescere mai.

Gov­ernare a colpi di tweet e di self­ie — un’in­nega­bile novità del­l’esec­u­ti­vo di Ren­zi rispet­to a tut­ti quel­li che l’han­no pre­ce­du­to, Let­ta com­pre­so — nel breve e medio peri­o­do, gra­zie anche a un’informazione dis­trat­ta o com­pia­cente, offre il van­tag­gio di pot­er­si lim­itare a pub­bli­ciz­zare i titoli dei temi, sor­volan­do sul loro effet­ti­vo svol­gi­men­to. Così res­ta anco­ra da capire se la cresci­ta delle tutele promes­sa sarà lega­ta a cias­cun con­trat­to, e quin­di des­ti­na­ta ad azzer­ar­si nel momen­to in cui cam­bia il pro­prio datore di lavoro, o se, vicev­er­sa, dipen­derà dal­l’anzian­ità lavo­ra­ti­va com­p­lessi­va.

Non si trat­ta di una ques­tione di lana cap­ri­na, per­ché nel pri­mo caso il nuo­vo regime, sen­za l’introduzione di for­ti con­tro­misure, finirebbe per trasfor­mar­si in un ulte­ri­ore incen­ti­vo per le aziende a inter­rompere il rap­por­to di lavoro pri­ma che le tutele diventi­no effet­ti­va­mente vin­colan­ti, con­dan­nan­do molte per­sone a un pre­cari­a­to per­ma­nente e ren­den­do la pos­si­bil­ità di appro­dare a un con­trat­to più sta­bile anco­ra più remo­ta di quan­to non lo sia già.

L’ennesima, inutile polem­i­ca sull’articolo 18 del­lo Statu­to dei lavo­ra­tori è per molti ver­si riv­e­la­trice dell’ideologia alla base del ren­zis­mo che, come ha scrit­to Alessan­dro Robec­chi, «è rius­ci­to a trasferire l’invidia sociale ai piani bassi del­la soci­età. Quel­la che una vol­ta si chia­ma­va lot­ta di classe (l’operaio con la Pan­da con­tro il padrone con la Fer­rari) e che la destra si affan­na­va a chia­mare “invidia sociale”, ora si è trasferi­ta alle clas­si più basse (il pre­cario con la bici con­tro l’avido e priv­i­le­gia­to statale con la Pan­da). Insom­ma, men­tre le posizioni api­cali non le toc­ca nes­suno (né per gli ottan­ta euro, né per altre riforme eco­nomiche è sta­to pre­so qual­cosa ai più ric­chi), si è ali­men­ta­ta una feroce guer­ra tra poveri».

Si trat­ta di con­sid­er­azioni che Ren­zi prob­a­bil­mente liq­uiderebbe come dis­cor­si da “pro­fes­soroni”, altra novità lessi­cale che gra­zie a lui è entra­ta ormai a pieno tito­lo nel ger­go del­la polit­i­ca, eppure la sua auto­procla­ma­ta cro­ci­a­ta in dife­sa dei lavo­ra­tori più deboli sarebbe molto più cred­i­bile se pren­desse di mira anche le pro­fonde dis­ug­uaglianze nel­la dis­tribuzione del­la ric­chez­za nel Paese e all’interno di ogni azien­da.

Per trovarne un esem­pio ecla­tante, da citare con nome e cog­nome nel suo prossi­mo videomes­sag­gio, non dovrebbe nep­pure guardare molto lon­tano. Il suo grande ammi­ra­tore Ser­gio Mar­chionne, infat­ti, tra stipen­dio base, bonus e stock option intas­ca oltre 2.500 volte la ret­ribuzione media di un operaio Fiat, che dovrebbe lavo­rare più di 200 anni per per­cepire lo stes­so salario che lui riesce ad accu­mu­la­re in un mese. Il suo pre­de­ces­sore Vit­to­rio Val­let­ta, ammin­is­tra­tore del­e­ga­to e pres­i­dente del­la Fiat tra gli anni Quar­an­ta e Ses­san­ta, si “accon­tenta­va” di guadagnare ven­ti volte di più dei suoi operai, a dimostrazione del fat­to che si può essere top man­ag­er anche sen­za incas­sare cifre stratos­feriche. Su questo tema, però, il seg­re­tario del «più grande par­ti­to d’Eu­ropa» (ipse dix­it), uffi­cial­mente anco­ra di sin­is­tra, non ha mai ritenu­to oppor­tuno pro­ferire ver­bo.

Invece delle solite polemiche con il sin­da­ca­to, che raf­forzano la sen­sazione di trovar­si di fronte a un Berlus­coni rin­gio­van­i­to di qualche lus­tro, da Ren­zi sarebbe lecito atten­der­si indi­cazioni pre­cise su quel­la che è la strate­gia conc­re­ta del gov­er­no per favorire la ripresa e rilan­cia­re il Paese. L’esec­u­ti­vo vuole puntare sul­lo svilup­po dei set­tori ad alto tas­so tec­no­logi­co? Se è così, ren­dere più facili i licen­zi­a­men­ti non servirà a nul­la, per­ché in questo ambito la vera sfi­da è quel­la di con­trastare la fuga dei cervel­li, cre­an­do le con­dizioni per far­li restare in Italia, attra­ver­so inves­ti­men­ti impor­tan­ti nel­la for­mazione, nel­la ricer­ca e mag­a­ri — sarebbe ora — anche nel­la creazione di una ban­da larga deg­na di questo nome in tut­to il Paese, che da sola potrebbe far crescere il prodot­to inter­no lor­do nel­l’or­dine dell’1–1,5 per cen­to.

Se, al con­trario, il piano del gov­er­no è quel­lo di attrarre inves­ti­men­ti in set­tori a bas­sa spe­cial­iz­zazione, facen­do del Jobs Act uno Steve Jobs Act — il cui mod­el­lo di rifer­i­men­to per la creazione di nuovi posti sono le mega-fab­briche cine­si in cui operai sot­top­a­gati, ipers­frut­tati e molto stres­sati assem­blano a ciclo con­tin­uo i dis­pos­i­tivi elet­tron­i­ci delle multi­nazion­ali hi-tech — la scommes­sa è per­sa in parten­za anche con l’ab­o­lizione totale del­l’ar­ti­co­lo 18.

È del tut­to evi­dente, infat­ti, che allo sta­to attuale, tagliare i dirit­ti dei lavo­ra­tori e i liv­el­li salar­i­ali non sarebbe suf­fi­ciente per reg­gere il con­fron­to con le con­dizioni molto più van­tag­giose offerte agli investi­tori stranieri da altri Pae­si, in ter­mi­ni di cos­to del lavoro, infra­strut­ture e ben­efi­ci fis­cali. Il risul­ta­to imme­di­a­to più prob­a­bile del­la rifor­ma in questo caso sarebbe un ulte­ri­ore trasfer­i­men­to del­la ric­chez­za com­p­lessi­va dai ceti più bassi ver­so l’alto, in un con­testo che, stan­do ai dati di un’indagine con­dot­ta da Banki­talia, nel 2012 vede­va già il 46,6 per cen­to del­la ric­chez­za net­ta totale del Paese con­cen­tra­to nelle mani del 10 per cen­to delle famiglie.

È fonda­to il sospet­to, invece, che l’abolizione dell’articolo 18 per Ren­zi rap­p­re­sen­ti soprat­tut­to lo scalpo con cui pre­sen­tar­si all’es­tero per dimostrare che in Italia coman­da davvero lui. Un totem da abbat­tere anche per sbaraz­zarsi una vol­ta per tutte del­la “vec­chia guardia” del par­ti­to, che dopo la tregua post-Europee ha ricom­in­ci­a­to ad alzare la cres­ta, cre­an­do le con­dizioni per pro­l­un­gare la sua per­ma­nen­za a Palaz­zo Chi­gi oltre l’at­tuale oriz­zonte dei mille giorni. L’iniezione di ulte­ri­ori dosi di pre­ca­ri­età nel mer­ca­to del lavoro può riv­e­lar­si con­ge­niale anche in questo sen­so, per­ché chi deve arra­bat­tar­si ogni giorno per rius­cire a sbar­care il lunario ha meno tem­po ed energie per dis­tur­bare il manovra­tore.

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