Il canto del cigno del governo Prodi suona anche come un requiem alla grande riforma mancata. Che non è quella elettorale, sulla quale in questi mesi si sono concentrate per l’ennesima volta le energie e le chiacchiere della classe politica, bensì quella della televisione, già oggetto del mea culpa collettivo del centrosinistra durante l’ultimo quinquennio berlusconiano.
Oggi che lo stesso centrosinistra, ormai a pezzi, sta per riconsegnare le chiavi del Paese a Berlusconi, come ha scritto Massimo Giannini su Repubblica con prosa dolorosamente efficace, la riforma non c’è ancora. Neppure quella targata Gentiloni, che si propone di fissare un tetto antitrust alle risorse pubblicitarie e di spedire sul digitale terrestre una rete Mediaset, ma è giudicata da molti troppo blanda per risolvere davvero l’annoso conflitto di interessi berlusconiano.
Del disegno di legge preparato dal ministro delle Comunicazioni si parla praticamente dall’inizio della legislatura ma, tanto per capire quanto stia a cuore alla quasi ex maggioranza, la sua discussione non è stata neppure messa in calendario alla Camera. Berlusconi, in compenso, ha trovato il modo di usarlo come merce di scambio nel fantomatico dialogo sulla riforma elettorale, definendo «criminale» il progetto di Gentiloni. Un aggettivo che — insieme al «criminoso» affibbiato a Biagi, Santoro e Luttazzi con il famigerato editto bulgaro del 2002 — chiarisce bene quale sia la sua idea di crimine e rende ancora più agghiacciante l’ipotesi, allo stato attuale tutt’altro che improbabile, di un suo ritorno a Palazzo Chigi.
Rivelatrice sulla reale volontà dei vertici del centrosinistra di riformare il regime televisivo italiano, come da promesse pre-elettorali, è stata la scelta di Walter Veltroni — cui va imputata anche la responsabilità di aver rilanciato il capo di Forza Italia come interlocutore privilegiato nello pseudoconfronto sulla legge elettorale — di nominare responsabile dell’informazione del Partito Democratico Marco Follini, che nella sua vita politica precedente da segretario dell’Udc e vicepremier di Berlusconi — è bene ricordarlo — votò a favore della contestatissima legge Gasparri. Una decisione, quella di Veltroni, resa ancora più eloquente da alcune dichiarazioni rilasciate dal Follini in versione centrosinistra, che ha sostenuto — adottando lo stesso identico lessico dei berluscones — che «la riforma delle tivù non può essere una clava contro l’avversario politico».
Come ha ricordato alla fine di novembre Curzio Maltese sulle pagine del Venerdì, il problema è che in Italia «quando i partiti decidono finalmente che è ora di scrivere regole comuni, significa soltanto che vogliono varare un’altra legge elettorale. Di solito, peggiore della precedente. Mentre l’Italia scivolava intorno all’ottantesimo posto nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa, da noi si discuteva di corretta informazione soltanto per assicurare la par condicio nel corso della campagna elettorale».
È questo il vero motivo di vergogna del nostro Paese agli occhi del mondo, o almeno di quella parte di mondo che considera la libertà di stampa un pilastro fondamentale della democrazia. Non certo la protesta legittima e civile dei docenti dell’Università La Sapienza contro la visita di papa Ratzinger all’inaugurazione dell’anno accademico, che ha scatenato un’indignazione bipartisan degna di miglior causa. Come ha sottolineato l’intellettuale americano Noam Chomsky, «l’Italia non ha fatto nessuna figuraccia. Semmai, senza nessuna forma di contestazione il rischio è quello di finire con un governo simil-Bush. E questo sì che sarebbe di gran lunga peggiore di una qualunque bagarre Sapienza-Chiesa».
La legge sulla riforma televisiva e sul conflitto di interessi, per riprendere il ragionamento lucido e rassegnato di Curzio Maltese, sono «cento volte più urgenti e importanti di una nuova porcata elettorale», ma a Berlusconi «è bastato fare assumere una rampante brigata di ex comunisti fra Mediaset e Mondadori perché anche la sinistra liquidasse la questione come antiberlusconismo». Così oggi il risultato più probabile è proprio quello paventato da Chomsky: un nuovo governo simil-Bush per l’Italia. Thank-you very much.
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