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A dis­pet­to di stereotipi duri a morire, la vio­len­za sulle donne non ha col­ore né cul­tura ma solo un ses­so, quel­lo maschile. A con­fer­mar­lo è un lan­cio di Ste­fa­nia Cec­chet­ti pub­bli­ca­to oggi dal­l’a­gen­zia Redat­tore Sociale, che cita i dati del Soc­cor­so vio­len­za ses­suale (Svs), un’as­so­ci­azione di volon­tari­a­to che ha sede pres­so la clin­i­ca Man­gia­gal­li di Milano. Si sco­pre così che la mag­gio­ran­za delle vit­time non sono ves­tite in modo provo­cante e aggred­ite in luoghi peri­colosi delle cit­tà. Nel 59 per cen­to dei casi, infat­ti, l’ag­gres­sore è una per­sona conosci­u­ta dal­la don­na e solo nel 37 per cen­to dei casi un estra­neo.

«Non c’è una cat­e­go­ria a ris­chio — sot­to­lin­ea Cecil­ia Zof­foli, assis­tente sociale del Svs — Ci capi­ta di seguire donne con situ­azioni di parten­za dif­fi­cili: sen­za fis­sa dimo­ra o con una qualche for­ma di dipen­den­za, spes­so ind­i­riz­zate a noi da altri servizi socio san­i­tari. Ma nel 60 per cen­to dei casi la vit­ti­ma è una don­na inte­gra­ta, con un lavoro e una famiglia, con un rego­lare per­me­s­so di sog­giorno se straniera (le ital­iane sono il 62 per cen­to, le straniere il 38 per cen­to del totale)».

A con­clu­sioni sim­ili era­no arrivate anche altre ricerche con­dotte negli ulti­mi anni nel nos­tro paese. Gigi Riva, in un arti­co­lo pub­bli­ca­to in otto­bre sul­l’E­spres­so, ave­va cita­to per esem­pio un’anal­isi Ipsos del 2005 che nell’85 per cen­to dei casi iden­ti­fi­ca­va nel mar­i­to o nel con­vivente l’au­tore del­la vio­len­za. E una relazione pre­sen­ta­ta nel novem­bre 2003 a Mari­na di Raven­na, in occa­sione del sec­on­do con­veg­no nazionale dei Cen­tri antiv­i­o­len­za e delle Case delle donne, ave­va denun­ci­a­to stereotipi e accen­ti sen­sazion­al­is­ti­ci usati dal­la stam­pa nei casi di stupro, abu­so ses­suale e mal­trat­ta­men­to, che «cre­ano un ecces­si­vo e fal­sato allarmis­mo riguar­do alla percezione del­la sicurez­za dei cit­ta­di­ni», iden­ti­f­i­can­do nel­lo spazio ester­no, nel­la stra­da — stori­ca­mente e cul­tural­mente maschile — il luo­go del peri­co­lo. In realtà, si legge nel­la relazione, «la stra­grande mag­gio­ran­za degli episo­di di vio­len­za sulle donne accade nei posti che dovreb­bero essere più sicuri: la famiglia, il luo­go di lavoro, quel­lo di stu­dio».

Alessan­dra Kuster­mann, gine­colo­ga alla Man­gia­gal­li e respon­s­abile del cen­tro antiv­i­o­len­ze ses­su­ali, pre­cisa che chi arri­va al Svs nel­la mag­gior parte dei casi ha già com­pi­u­to una scelta, ha deciso di denun­cia­re. Ma si trat­ta di un pas­so tut­t’al­tro che facile da com­piere: «Spes­so la ver­gogna e il sen­so di col­pa sono trop­po for­ti per decidere di par­lare con le forze del­l’or­dine. Molte riten­gono di aver sbaglia­to, di non essere state abbas­tan­za attente, di non aver lot­ta­to a suf­fi­cien­za. E poi par­larne vuol dire ricor­dare par­ti­co­lari per­cepi­ti come degradan­ti. Queste donne si sentono con­t­a­m­i­nate nel pro­prio io più pro­fon­do, sporche. Ecco per­ché la pri­ma cosa che chiedono quan­do arrivano da noi è di lavar­si».

Per denun­cia­re ci vuole un cor­ag­gio che spes­so è frut­to di un per­cor­so, quel­lo che gli oper­a­tori del Svs cer­cano di far com­piere alle donne che assistono. Il pri­mo pas­so è la visi­ta med­ica, che ha lo scopo di pre­venire le malat­tie ses­sual­mente trasmis­si­bili attra­ver­so la som­min­is­trazione di antibi­oti­ci. A chi la vuole viene som­min­is­tra­ta anche la cosid­det­ta “pil­lo­la del giorno dopo”. Le donne sono inoltre inserite in un pro­gram­ma di richi­a­mi per il con­trol­lo del­l’Hiv a uno, tre e sei mesi di dis­tan­za dal­lo stupro. La visi­ta serve inoltre a rac­cogliere even­tu­ali prove nel caso la vit­ti­ma deci­da — può far­lo entro sei mesi — di intrapren­dere un iter giudiziario.

L’in­ter­ven­to forse più qual­i­f­i­cante del Svs, scrive anco­ra Ste­fa­nia Cec­chet­ti citan­do Cecil­ia Zof­foli, è quel­lo di sosteg­no psi­co­logi­co. La vio­len­za, infat­ti, non è soltan­to una feri­ta del cor­po, «ma soprat­tut­to del­la mente. Per questo for­ni­amo un’as­sis­ten­za psi­co­log­i­ca che in molti casi si riv­ela fon­da­men­tale per elab­o­rare la fase acu­ta del trau­ma. Cer­to, non pos­si­amo impostare ter­apie a lun­go ter­mine, per­ché siamo un cen­tro di pron­to inter­ven­to: per questo lavo­riamo in rete con altri servizi sul ter­ri­to­rio, dai con­sul­tori alle Car­i­tas. Cer­chi­amo di capire, innanz­i­tut­to, se la vit­ti­ma ha le risorse per rimet­ter­si in pie­di, se ha una rete di sosteg­no, se ha un pos­to dove tornare». E rischia di essere pro­prio questo il prob­le­ma più dif­fi­cile da risol­vere, se l’or­co è in famiglia.

Arti­co­lo pub­bli­ca­to anche su Medi­um

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Commento

  1. infat­ti uno dei risul­tati che si vor­reb­bero ottenere con la let­tura (e con­seguente dif­fu­sione medi­at­i­ca) del­la vio­len­za sulle donne come “prob­le­ma di sicurez­za” è quel­lo di “rin­viare” le donne in casa …

    RIPRENDIAMOCI LE STRADE! RIPRENDIAMOCI LA NOTTE!

  2. Sono d’ac­cor­do coi dati da te for­ni­ti, d’ac­cor­do sul peri­co­lo in casa, sul­la vio­len­za domes­ti­ca, ma con una ris­er­va. Ho con­stata­to viven­do in una grande metropoli qual è Milano, che la pre­sen­za di ragazze sole o in grup­pi è più raro che altrove. Ho fre­quen­ta­to la Ger­ma­nia, o realtà ital­iane minori — Gen­o­va, Livorno, Firen­ze, Siena — dove di ragazze in giro la sera se ne vedono. Non a Milano. Qui le ragazze se escono lo fan­no rig­orosa­mente accom­pa­g­nate almeno da un uomo… sarà solo un prob­le­ma di percezione del degra­do met­ro­pol­i­tano, di percezione non sup­por­t­a­ta da dati uffi­ciali, da sta­tis­tiche, ma anche la percezione crea a sua vol­ta una realtà e in essa un mon­do meno libero e vivi­bile. Ciao