Il Paese è l’Italia. Le meraviglie, invece, sono quelle celebrate dall’amministratore delegato di Telecom Italia, Riccardo Ruggiero, in un’intervista pubblicata il 3 luglio su Affari & Finanza, il supplemento di Repubblica del lunedì. Il titolo del richiamo in prima pagina — “L’Italia dei primati nella banda larga” — riassume bene il trionfalismo delle dichiarazioni di Ruggiero: «Prima dell’estate, nel giro di un paio di mesi, abbiamo reso disponibili ben quattro nuove tecnologie — spiega l’ad di Telecom nell’intervista firmata da Giuseppe Turani — Il Dvb‑h, cioè la televisione digitale sui telefonini: già oggi trasmettiamo i tre canali Mediaset, più la 7 e Mtv. L’Hsdpa, cioè la rete di cellulare a alta velocità (per adesso 1,2 mega). Poi il sistema Uma, cioè il telefono Gsm e Wi-fi. Infine abbiamo reso disponibile l’Adsl a 20 mega».
Petto in fuori e pancia in dentro, Ruggiero sottolinea che «oggi non esiste nessun Paese europeo in cui tutto questo sia disponibile contemporaneamente. Qualcuno ha una cosa, qualcun altro ne ha un’altra. Gli unici che hanno tutto questo sono gli italiani». E ancora: «Per quanto riguarda le telecomunicazioni oggi l’Italia è una specie di Paese-esempio, siamo quelli più avanti di tutti in Europa. E devo aggiungere che abbiamo un pubblico che risponde molto bene, che apprezza molto tutte queste novità». E ancora: «Ormai dobbiamo considerare che la banda larga è ovunque in Italia e che nei prossimi mesi diventerà ancora più larga fino a raggiungere dimensioni che in pratica consentono di fare qualsiasi cosa, sia nei telefoni fissi che in mobilità. I tempi in cui il telefono serviva soprattutto per parlare sono lontanissimi. Adesso si può fare qualsiasi cosa».
Tutto meraviglioso e straordinario, insomma. Se fosse vero. L’amministratore delegato di Telecom Italia, però, viene smentito dal sito di Telecom Italia, che anche dopo le dichiarazioni rilasciate dal suo capo ad Affari & Finanza a molti, troppi internauti si ostina a ripetere che «il numero telefonico inserito non è in una zona in cui il servizio Adsl è disponibile». Nessuna paura, però, perché «Alice Sat ti dà comunque la possibilità di connetterti a Internet a banda larga via satellite. Alice Sat, infatti, è la nuova soluzione broadband che, tramite connessione satellitare, garantisce una copertura del territorio nazionale del 100 per cento».
Il tono del messaggio è tranquillizzante, la sostanza decisamente meno. Con il satellite, infatti, la velocità massima raggiungibile in download è di 640 Kbp/s e di 33,6 Kbp/s in upload, con modem analogico su linea tradizionale. Tradotto in italiano significa che, oltre a installare la parabola e a pagare la connessione per accedere alla rete via satellite, è necessario mantenere (e pagare) anche la connessione telefonica, sennò il servizio non può funzionare.
Che fine hanno fatto i 20 mega di cui parlava Ruggiero? È lo stesso ad di Telecom a chiarirlo — si fa per dire — in un altro passaggio dell’intervista del 3 luglio: «Ci siamo impegnati, entro la fine del 2007, a raggiungere il 95 per cento della popolazione italiana con l’Adsl, cioè con la banda larga. A quel punto l’Italia sarà davvero una delle migliori realtà europee». Nel giro di un paragrafo, insomma, Ruggiero smentisce se stesso. Non siamo quelli più avanti in Europa, ma lo saremo alla fine dell’anno prossimo. Tranquilli.
Del resto, quando si è il manager più pagato d’Italia (7,2 milioni di euro nel 2004, al lordo di tasse e altre ritenute) come si fa a non essere ottimisti? A Ruggiero poteva andare peggio. Molto peggio. Per esempio poteva capitargli di nascere in Gran Bretagna, un Paese che negli ultimi due decenni insieme alle privatizzazioni ha attuato anche un’imponente operazione di cablatura del territorio, costata una decina di miliardi di sterline (pari a più di 30mila miliardi delle vecchie lire). Quasi tutti, udite udite, a carico del settore privato.
La privatizzazione all’italiana del settore delle telecomunicazioni, viceversa, è riuscita perfino nel miracolo di preservare l’anacronistico balzello del canone, che grava su tutte le linee della rete fissa a prescindere dai servizi che sono in grado di trasportare. Così per i proletari della telefonia al danno (economico, sociale, morale, culturale) derivante dall’impossibilità di usufruire della banda larga, si somma la beffa di pagare lo stesso identico abbonamento di chi può sfruttare i mirabolanti servizi di ultima generazione, dei quali l’ad di Telecom ama molto parlare nelle sue interviste. In pratica, nell’Italia delle tlc su chi viaggia in Cinquecento grava lo stesso bollo di chi sfreccia al volante di una Ferrari.
All’ingiustizia aveva promesso di porre rimedio, o quantomeno una pezza, l’ex ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, sedicente paladino della copertura totale Adsl del territorio. «Devono essere considerati ammissibili interventi pubblici nel settore delle infrastrutture di comunicazione elettronica laddove necessario — aveva sostenuto nel 2004 — Non si tratta di sostituirsi al mercato o di alterarne le dinamiche. Dove esistono convenienze minime il mercato è in grado di realizzare almeno un’infrastruttura a larga banda e i diversi operatori sono in grado di accedervi in condizioni di concorrenza, attraverso i consueti meccanismi regolatori. Vi sono però aree in cui questa convenienza minima non esiste e, se lo Stato non interviene, si approfondiscono forme di digital divide».
Detto, fatto. Con una logica che ricorda quella del bonus bebè, distribuito in parti uguali tra il figlio di Totti e quello del metalmeccanico Mario Rossi, il governo Berlusconi è intervenuto a sostegno dell’uguaglianza digitale con uno stanziamento complessivo di 171 milioni di euro, inserito nelle leggi finanziarie del 2003 e 2004. Per fare cosa? Incentivare, con dei buoni di qualche decina di euro ciascuno, gli abbonamenti di accesso a Internet a banda larga e l’acquisto dei decoder per la televisione digitale terrestre. Un’ulteriore beffa per il sottoproletariato delle tlc, che può solo sognare banda larga e relativi stanziamenti, e la conferma che viviamo davvero in un Paese meraviglioso. Almeno dal punto di vista di Riccardo Ruggiero.
Nell’Italia delle meraviglie, la quantità di inchiostro versato dai giornali e il numero di parole pronunciate in tv per denunciare questo stato di cose sono inversamente proporzionali al denaro sborsato per le sue attività di marketing da Telecom, che figura al primo posto assoluto nella classifica degli investitori pubblicitari della nostra penisola, davanti a due giganti internazionali del calibro di Unilever (titolare, tra gli altri, dei marchi Findus, Knorr, Lipton, Dove, Cif, Calvè e Bertolli) e Procter & Gamble (Dash, Gillette, Duracell, Eukanuba, Mastro Lindo, Lacoste).
La scelta di investire in spot piuttosto che in centraline Adsl è lungimirante. Può rivelarsi particolarmente utile, per esempio, quando si tratta di mettere la sordina a notizie poco lusinghiere sul proprio conto. Così gli stessi media che nelle ultime settimane ci hanno travolto con una quantità impressionante di dettagli sullo scandalo di Calciopoli, hanno palesato un’insolita ritrosia quando si è trattato di addentare il boccone, potenzialmente altrettanto gustoso, delle intercettazioni Telecom, una “spy story” che incrocia, tra l’altro, anche le stesse magagne del pallone.
Come ha scritto Giuseppe D’Avanzo il 23 maggio scorso sulle pagine di Repubblica, «gli spioni privati, ingaggiati e pagati da Pirelli e dalla sua controllata Telecom Italia, hanno raccolto migliaia di “fascicoli” sul conto di politici, uomini di finanza, banchieri e finanche su arbitri e manager di calcio. I più prudenti e discreti, tra gli interlocutori, sono disposti a dire che “i file raccolti illegalmente sono decine e decine di migliaia”. Altre fonti offrono un numero tondo: “I file sono centomila”. Gli uni e le altre concordano che una “schedatura così ramificata non s’è mai vista dai tempi del Sifar del generale Giovanni De Lorenzo».
Questa imponente e inquietante schedatura illegale sarebbe stata realizzata anche grazie alla complicità di pubblici funzionari infedeli, capaci di violare le banche dati del Viminale, della Banca d’Italia e degli uffici della pubblica amministrazione. Gli ingredienti per fare un po’ di baccano mediatico, insomma, c’erano tutti, ma di fronte al gigante Telecom la maggioranza delle redazioni ha preferito mandare a farsi benedire deontologia e criteri di notiziabilità. Così sulla storia (per ora) è calato rapidamente il sipario. Moggi & C. prendano nota: il loro errore non è stato quello di parlare troppo al telefonino. Dovevano semmai investire di più in pubblicità.
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