Nell’immediata vigilia del referendum sulla riforma costituzionale del 25 e 26 giugno, urge lanciare un appello in difesa dei parlamentari. O, meglio, del loro numero, che la riforma sottoposta al vaglio degli italiani stabilisce sia ridotto a partire dalla legislatura del 2016. Un provvedimento — si è appreso dai vari dibattiti televisivi organizzati in fretta e furia negli ultimi giorni — motivato dalla non meglio precisata necessità di «ridurre i costi della politica».
Proposito nobile e opportuno, anche se a scoppio ritardato, visto che si tradurrebbe in realtà solo fra una decina d’anni. Questo il giudizio di molti. Non a caso gli spot sul referendum mandati in onda dalle reti Mediaset (e censurati dall’Authority per le comunicazioni per la loro parzialità e incompletezza) hanno enfatizzato il taglio del numero degli onorevoli, a discapito di altri aspetti più complessi e controversi della riforma varata in solitudine dall’ex maggioranza di centrodestra, guidata guarda caso proprio dal padrone di Mediaset.
In uno scenario politico come quello attuale, caratterizzato da un muro contro muro quasi permanente tra centrodestra e centrosinistra, la riduzione dei parlamentari in questi giorni è riuscita nel miracolo di mettere tutti (quasi) d’accordo. Da Fassino a Buttiglione, da Rutelli a Fini, è lungo infatti l’elenco di coloro che dichiarano di considerarla cosa buona e giusta, dissentendo semmai sui tempi della sua attuazione.
Perfino Beppe Grillo, nel motivare il suo no alla riforma, invoca una «drastica e immediata riduzione del numero dei parlamentari» contro «i professionisti della politica». Ed è proprio questo pensiero unico “riduzionista”, questa demagogia bipartisan che sembra non lasciare spazio ad alcuna replica, a rendere opportuno un appello in senso contrario, che parte dalla stessa premessa — la necessità di ridurre i costi della politica — ma giunge a conclusioni opposte.
Al di là della retorica del contenimento dei costi a carico dell’erario, l’unica certezza che abbiamo è che la prima conseguenza della riduzione dei seggi sarà un inevitabile ampliamento degli attuali collegi elettorali. Ciò significa che, se la riforma costituzionale supererà l’ostacolo del referendum, ogni parlamentare eletto a partire dalla legislatura del 2016 sarà destinato a rappresentare un numero di elettori più ampio di quello attuale, con probabili ricadute negative sul rapporto tra i cittadini e i loro delegati (o dipendenti, per dirla alla Grillo) alla Camera e al Senato, che già ora appare assai deficitario. In pratica, un ulteriore indebolimento della democrazia.
La riduzione del numero dei parlamentari rischia, inoltre, di rendere il fortino della politica ancora più inaccessibile ai cittadini “normali”. Un fatto grave e da non sottovalutare in un Paese in cui i segnali di uno scivolamento da una democrazia più o meno compiuta a un’oligarchia-plutocrazia sempre più marcata, sulla falsariga di quanto avvenuto per esempio negli Stati Uniti, sono evidenti da tempo. E il caso di Berlusconi — ovvero l’uomo più ricco d’Italia che diventa presidente del Consiglio — rappresenta in questo senso solo la punta dell’iceberg.
Si prenda la Lombardia. Dai dati Irpef relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2003 emerge che tutti i consiglieri regionali uscenti, con due sole eccezioni, dopo quasi cinque anni di legislatura potevano contare su un reddito annuo superiore ai centomila euro. In media 139.363 euro e rotti ciascuno. È la dimostrazione che la politica, almeno quella svolta a un certo livello, in uno scenario complessivo di recessione (o stagnazione), è rimasta una delle poche carriere remunerative e si sta trasformando in un feudo più o meno esclusivo per chi è già ricco di suo.
Ciò aiuta anche a spiegare perché in molti casi l’agenda delle istituzioni non coincida con i bisogni e le aspettative della maggioranza dei cittadini. È inevitabile, infatti, che chi guadagna più di centomila euro all’anno tenda ad avere una visione del mondo e delle priorità diverse da chi stenta ad arrivare a quota 15–20mila.
La retorica dei “riduzionisti”, del resto, è poco convincente anche alla luce della storia recente. La classe politica che oggi si proclama unanimemente favorevole a un taglio dei seggi parlamentari in nome dell’austerity, infatti, è la stessa che con raro spirito bipartisan ha fatto sì che dal 2000 a oggi, in un periodo di vacche magre per la stragrande maggioranza degli italiani, il salario medio degli onorevoli lievitasse di circa cinquemila euro, fino a toccare quota 16mila tra stipendio, diaria, indennità e privilegi vari.
Come ha rivelato la trasmissione di Raitre Report, che di questa questione si è occupata a più riprese, «il costo totale annuo degli amministratori di un comune di 16mila abitanti, sindaco, vicesindaco, cinque assessori e presidente del consiglio, è di 161mila euro, meno dello stipendio di un solo deputato, ed è lo 0,3 del bilancio comunale» e «lo stipendio dei sindaci dei comuni sotto i 20mila abitanti, che sono il 95 per cento del totale, non arriva a duemila euro». Se l’urgenza è davvero quella di mettere un freno ai costi della politica, perché dunque non provvedere subito intervenendo sulla busta paga dei parlamentari, invece di ricorrere alla riduzione del numero dei seggi, rimandando tra l’altro il taglio al prossimo decennio?
La realtà è che i veri costi della politica che andrebbero eliminati sono altri. Sono i costi sociali, economici e culturali determinati da una classe politica autoreferenziale — senza troppe distinzioni tra destra e sinistra — che rifiuta di rinnovarsi ed è soprattutto preoccupata della propria sopravvivenza, che cerca di assicurarsi attraverso un’influenza sempre più ingombrante e cafona sulla società. Ne è un esempio l’affannosa e impudente corsa alle poltrone scattata dopo la vittoria del centrosinistra alle ultime elezioni politiche, alla faccia di un elettorato che in larga misura chiedeva forti segnali di discontinuità rispetto all’andazzo berlusconiano.
Ancora più esemplari e desolanti, in questo senso, sono i vari scandali emersi negli ultimi mesi grazie alle intercettazioni telefoniche predisposte dalla magistratura. Intercettazioni che, a prescindere dai loro esiti processuali, ci restituiscono l’immagine di un’Italia marcia fino al midollo, in cui i meriti, i talenti, la moralità e lo spirito di sacrificio sono sistematicamente calpestati e vilipesi a vantaggio di servilismo, nepotismo, mediocrità e opportunismo. E peggio per chi non si adegua.
La certezza è che sia questo il vero nodo da sciogliere per ridurre davvero la zavorra che sta facendo affondare il Paese, anche se nel panorama attuale — e con questa classe dirigente — è difficile intravedere una via di uscita praticabile. Quello che appare lampante, invece, è che la norma che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, inserita all’interno di una riforma costituzionale destinata a creare più problemi di quelli che promette di risolvere, è utile soprattutto come specchietto per le allodole per carpire ancora una volta la fiducia degli elettori. O almeno di quelli un po’ più distratti.
In tutto questo spiace che il centrosinistra si sia lasciato sfuggire un’altra occasione — l’ennesima nell’arco di queste prime settimane di governo — per distinguersi dalla controparte, da cui sembra aver assimilato un’inquietante propensione alla propaganda spiccia slegata dai contenuti. Per farlo serviva un po’ di coraggio, ma — come scrisse il Manzoni di don Abbondio — «il coraggio uno se non ce l’ha mica se lo può dare».
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La proposta sulla riduzione dei parlamentari è demagogica e, forse, semplicistica, poiché aggira il problema rappresentato dai molti altri costi della politica. Penso a quelli, per esempio, legati a incarichi e consulenze milionari, per lo più inutili se solo si facesse buon uso delle ampie e professionali risorse umane presenti nei vari enti pubblici.
Sono però questi i mezzi privilegiati per il consolidamento e il rafforzamento delle reti clientelari che afferiscono ai vari politici e alti dirigenti pubblici. E sono queste pratiche, con tutto ciò che esse implicano, anche in termini di diritti alienati, meriti oscurati, etc. a rappresentare il peso economico, etico e morale più forte per la nostra democrazia in declino.
Se si intervenisse su questi punti, piuttosto che sulla diminuzione del numero dei rappresentanti, si otterrebbero molti più risultati, ma certo, è più semplice, e molto, molto meno impegnativo, gridare “all’alto numero dei parlamentari” per ottenere “che tutto cambi, perché tutto rimanga com’è”.
Forse sarebbe il caso di ricordare ai nostri “dipendenti” le promesse fatte durante la campagna elettorale per il referendum (che, sia detto per inciso, fortunatamente abbiamo vinto). Fassino & C. dicevano giustamente: votateci, che poi noi ridurremo il numero dei parlamentari, anche in misura maggiore di quanto previsto dalla riforma dei saggi di Lorenzago.
Tutto giusto.
Quando si comincia?
Vogliamo raccogliere qualche milione di firme per una legge di iniziativa popolare per porre un freno ai costi della politica?
O preferiamo aspettare che lo faccia un partito (forse il 30 febbraio)?
Si tratta di poche propostine semplici semplici, tanto per cominciare: 200 deputati e 100 senatori in meno e abolizione delle province.
L’alternativa minimalista è accontentarsi dell’annunciato accorpamento di Inps e Inail, con penose code di dirigenti promossi/rimossi, e relativa diaspora verso la terra promessa di comode poltrone (un posto di capostruttura in RAI non si nega a nessuno, e conferisce un appetibile fascino presso le aspiranti vallette).
Ottimo post.
La votazione nel referendum de 2006 era unica per tutte e 15 le proposte o si poteva votare proposta per proposta?