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Ven­tuno mil­ioni. Tante sono le mor­ti provo­cate dal 1980 a oggi dal­l’ap­pli­cazione nei Pae­si africani dei pro­gram­mi di aggius­ta­men­to strut­turale, imposti dal Fon­do mon­e­tario inter­nazionale, dal­la Ban­ca mon­di­ale e dal G8 come req­ui­si­to indis­pens­abile per la con­ces­sione di presti­ti. Cal­co­la­trice alla mano, la perdi­ta di vite umane causa­ta all’Africa dal ricat­to del­la riduzione del­la spe­sa pub­bli­ca per salute, istruzione e spese ali­men­ta­ri, e dal­la pri­va­tiz­zazione forza­ta delle imp­rese statali, equiv­ale a più di tre olo­causti, 1.700 guerre in Iraq, cinquemi­la intifade e set­temi­la 11 set­tem­bre.

Con­sid­er­a­ta la mas­s­ic­cia cop­er­tu­ra medi­at­i­ca ris­er­va­ta agli atten­tati di New York e Wash­ing­ton del 2001, ques­ta notizia avrebbe dovu­to provo­care un dilu­vio di arti­coli e reportage tele­vi­sivi, ovvero l’e­sat­to con­trario di quel­lo che è suc­ces­so. Non a caso a pub­bli­car­la è “Cen­sura”, il libro edi­to in Italia da Nuovi Mon­di Media che rac­coglie le notizie più cen­surate del 2003. E non a caso è una riv­ista spe­cial­iz­za­ta in no-news come Car­ta a dedi­care un intero almanac­co all’Africa, la “madre di tutte le non-notizie”.

Per com­pren­dere come 21 mil­ioni di per­sone pos­sano sparire dal­la fac­cia del­la ter­ra nel­l’in­dif­feren­za del cir­co del­la (dis)informazione si può par­tire dal­la morte di due icone del XX sec­o­lo, l’ex attore di B‑movie, nonché ex pres­i­dente degli Sta­ti Uni­ti, Ronald Rea­gan, e il divo cin­e­matografi­co Mar­lon Bran­do, la cui recente scom­parsa ha provo­ca­to un’e­co ben più vas­ta dei dis­as­tri causati dai pro­gram­mi di aggius­ta­men­to strut­turale.

Il pri­mo è sta­to uno degli arche­tipi del politi­co con­tem­po­ra­neo di suc­ces­so, tut­to sor­risi e “sound bite”, le bre­vi dichiarazioni a effet­to con­fezion­ate a uso e con­sumo dei tele­gior­nali. È sta­to ricorda­to come l’artefice, vero o pre­sun­to, del boom eco­nom­i­co degli Sta­ti uni­ti negli anni Ottan­ta, e come il leader che con la sua deter­mi­nazione favorì il crol­lo del bloc­co sovi­eti­co. Nel momen­to del lut­to, però, alla memo­ria selet­ti­va dei mass media è sfug­gi­to che fu pro­prio la sua ammin­is­trazione a imporre al Sud del mon­do la polit­i­ca aggres­si­va che ha sca­v­a­to la fos­sa a mil­ioni di africani, basa­ta sul dog­ma del­la “dereg­u­la­tion”, del taglio dei salari e del­la lib­er­al­iz­zazione delle impor­tazioni.

A Mar­lon Bran­do non si può addos­sare alcu­na respon­s­abil­ità in questo sen­so, ma i fiu­mi di inchiostro ver­sa­ti dal­la stam­pa di tut­to il mon­do per pian­gere la sua morte riv­e­lano una delle carat­ter­is­tiche prin­ci­pali del­l’in­for­mazione con­tem­po­ranea, in cui la real­i­ty ha ormai pre­so il sopravven­to sul­la realtà. Nel­la “real­i­ty”, la realtà costru­i­ta dai reso­con­ti dei gran­di mezzi di comu­ni­cazione, il mon­do è un uni­co, grande vil­lag­gio inter­con­nes­so, in cui qual­si­asi notizia, gra­zie a Inter­net e al satel­lite, può balzare istan­ta­nea­mente e sen­za alcun vin­co­lo da un capo all’al­tro del globo, e l’Africa post-colo­niale nien­t’al­tro che un grande zoo dila­ni­a­to da guerre e carestie, diven­tate così fre­quen­ti da non fare più notizia.

Per la “real­i­ty” un ital­iano è un ital­iano, un amer­i­cano è un amer­i­cano, un brasil­iano è un brasil­iano, ma un ugan­dese o un keni­ano è solo un africano o, peg­gio, un clan­des­ti­no, come i profughi sudane­si del­la Cap Ana­mur. Nel­la “real­i­ty” il con­ti­nente africano è vit­ti­ma delle sue usanze trib­ali e delle sue super­stizioni, cui fan­no da con­traltare la nos­tra cul­tura e la nos­tra reli­gione, e va ammi­ra­to solo quan­do dai suoi prover­biali altip­i­ani spun­ta un atle­ta in gra­do di vin­cere una medaglia d’oro alle Olimpia­di. La “gram­mat­i­ca del­la raz­za” appli­ca­ta dai media alle popo­lazioni africane si riduce, infat­ti, a una man­ci­a­ta di fig­ure stereoti­pate, come quel­la del “men­estrel­lo”, che attribuisce ai neri qual­ità innate per quan­to riguar­da l’in­trat­ten­i­men­to, anche in cam­po sporti­vo, o quel­la del “sel­vag­gio”, che può essere civ­i­liz­za­to solo dal­l’uo­mo bian­co.

Vicev­er­sa nel­la realtà, quel­la vera, la comu­ni­cazione glob­ale è ostag­gio di un numero sem­pre più ristret­to di cor­po­ra­tion (negli Usa, per esem­pio, il cartel­lo dei media è ormai ridot­to a cinque gran­di grup­pi: Aol Time Warn­er, Viven­di Uni­ver­sal, News Cor­po­ra­tion, Via­com e Walt Dis­ney Com­pa­ny), che nel nome del prof­it­to stan­no trasfor­man­do l’in­for­mazione in una mer­ce da scaf­fale di super­me­r­ca­to. Lo dimostra­no la pro­gres­si­va scom­parsa dei cor­rispon­den­ti dal­l’es­tero, ridot­ti ormai a specie in via di estinzione, e la trasfor­mazione dei gior­nal­isti in imp­ie­gati addet­ti all’assem­blag­gio di mate­ri­ale prodot­to altrove. La mas­simiz­zazione dei prof­itti, infat­ti, fa del­l’in­for­mazione un piat­to di con­torno del­la pub­blic­ità e deter­mi­na il rici­clag­gio sis­tem­ati­co delle notizie, che, sfu­ma­ture a parte, rende le sin­gole tes­tate una foto­copia le une delle altre. Per il gior­nal­is­mo “copia-incol­la” il lavoro del­l’inchi­es­ta e del­l’ap­pro­fondi­men­to è un eser­cizio trop­po cos­toso.

È più como­do e con­ve­niente, infat­ti, dedi­care al ricor­do di Mar­lon Bran­do pagine intere di com­men­ti, riem­pite in fret­ta e furia rovi­s­tan­do nel mate­ri­ale di archiv­io, piut­tosto che spedire un invi­a­to in Africa. E poco impor­ta che gra­zie a Inter­net e alle e‑mail chi­unque abbia, almeno poten­zial­mente, la pos­si­bil­ità di dare voce alle pro­prie opin­ioni, per­ché l’ele­men­to fon­da­men­tale alla base del plu­ral­is­mo non è la pro­duzione cul­tur­ale, ben­sì il con­trol­lo del­la sua dis­tribuzione, che è sal­da­mente nelle mani dei pochi pesci grossi che con­trol­lano l’in­dus­tria del­l’in­for­mazione, tut­ti dis­lo­cati, guar­da caso, nel­l’em­is­fero set­ten­tri­onale del piane­ta.

Nel­la realtà, quel­la vera, il con­ti­nente africano è il teatro di un grande sac­cheg­gio da centi­na­ia di mil­iar­di di dol­lari, con­dot­to a van­tag­gio del­l’Oc­ci­dente da dit­tature e milizie ali­men­tate dal­lo stes­so Occi­dente attra­ver­so la for­ni­tu­ra di armi e finanzi­a­men­ti. Come in Nige­ria, dove nel 1995 il poeta e scrit­tore Ken Saro-Wiwa venne gius­tizia­to, insieme ad altre otto per­sone, solo per aver denun­ci­a­to i dan­ni provo­cati all’e­co­sis­tema del delta del Niger dalle triv­el­lazioni petro­lif­ere del­la Shell. O come in Con­go, dove negli ulti­mi sei anni sono morte nel­l’in­dif­feren­za dei mezzi di comu­ni­cazione di mas­sa qua­si quat­tro mil­ioni di per­sone (pari a cir­ca 1.300 11 set­tem­bre) a causa del­la guer­ra scate­na­ta per assi­cu­rare il con­trol­lo delle sue abbon­dan­ti risorse nat­u­rali a 85 imp­rese occi­den­tali, con sudafricani e israeliani a rin­for­zo.

Il black-out prat­i­ca­to dai gran­di media nei con­fron­ti delle per­iferie del mon­do è sta­to parzial­mente (e for­tu­nata­mente) argina­to negli ulti­mi anni da numerosi esper­i­men­ti di infor­mazione alter­na­ti­va, accom­pa­g­nati da un sig­ni­fica­ti­vo cam­bio di atteggia­men­to da parte di alcune realtà del non-prof­it. Parafrasan­do il mot­to di Indy­media, “don’t hate the media, become the media”, non odi­are i media, diven­ta un media, la sen­sazione, infat­ti, è che dopo aver dis­prez­za­to i media, colpevoli di offrire un’im­mag­ine stereoti­pa­ta e super­fi­ciale del­l’Africa, anche il mon­do del­la sol­i­da­ri­età e del­la coop­er­azione allo svilup­po abbia final­mente com­pre­so la neces­sità di affi­an­care alle pro­prie inizia­tive sul cam­po un’at­tiv­ità infor­ma­ti­va sem­pre più cap­il­lare, trasfor­man­dosi da ogget­to pas­si­vo ad attore atti­vo del­la comu­ni­cazione.

Tra i pio­nieri di ques­ta pic­co­la ma impor­tante riv­o­luzione cul­tur­ale fig­u­ra­no, per esem­pio, l’a­gen­zia Mis­na, che dal 1997 dif­fonde ogni giorno decine di notizie sfrut­tan­do come fonte priv­i­le­gia­ta una rete di migli­a­ia di mis­sion­ari dis­sem­i­nati nei pae­si del Sud del mon­do, il Redat­tore Sociale, che ded­i­ca pro­prio all’Africa una sezione spe­ciale del pro­prio sito, e la ver­sione ital­iana di ZNet, che ha saputo trasfor­mare la pas­sione civile di tan­ti tradut­tori volon­tari, pro­fes­sion­isti e non, in un ric­co ser­ba­toio di non-notizie, al quale attin­gono sem­pre più spes­so anche i gior­nal­isti dei media uffi­ciali.

Nel frat­tem­po il Forum sociale europeo di Firen­ze ha lan­ci­a­to una rete di comu­ni­cazione sul­l’Africa, ded­i­ca­ta a Ong, asso­ci­azioni, stu­diosi e gior­nal­isti, men­tre il dipar­ti­men­to di Scien­ze del­la Comu­ni­cazione del­l’U­ni­ver­sità di Siena ha pro­mosso la real­iz­zazione di un “Osser­va­to­rio sul­la comu­ni­cazione del­l’Africa in Italia” in col­lab­o­razione con una Ong, Amref, che negli ulti­mi anni ha fat­to del lin­guag­gio audio­vi­si­vo uno dei perni del­la sua attiv­ità.

Si trat­ta qua­si sem­pre di inizia­tive ed esper­i­men­ti che devono fare i con­ti con i lim­i­ti imposti dalle scarne risorse, e pen­sare che siano suf­fi­ci­en­ti, di per sé, a garan­tire una rap­p­re­sen­tazione più adegua­ta del­la realtà africana e del­la sua nor­mal­ità, oltre che dei suoi dram­mi, è illu­so­rio. Il fat­to stes­so che esis­tano, però, sta a dimostrare ai gran­di media, tele­vi­sione in tes­ta, che l’Africa è tut­t’al­tro che una non-notizia, e che è pos­si­bile par­larne sen­za cedere per forza alla ten­tazione del pietismo, del pater­nal­is­mo o del­la dram­ma­tiz­zazione.

Arti­co­lo pub­bli­ca­to il 29 luglio 2004 sul­l’Al­manac­co Africa del set­ti­manale Car­ta

Arti­co­lo pub­bli­ca­to anche su Medi­um

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