in Media, Guerra e pace, Politica, Società

Negli anni Cinquan­ta, con la sua gram­mat­i­ca gen­er­a­ti­va, ha riv­o­luzion­a­to gli stu­di di lin­guis­ti­ca. Negli anni Ses­san­ta si è schier­a­to aper­ta­mente con­tro la guer­ra in Viet­nam. Il New York Times l’ha defini­to «il più impor­tante intel­let­tuale vivente». Oggi è con­sid­er­a­to uno degli ispi­ra­tori del movi­men­to glob­ale che si oppone al pen­siero uni­co neoliberista e alla polit­i­ca impe­ri­ale dell’attuale ammin­is­trazione statu­nitense.

Nei suoi pan­ni, insom­ma, in molti avreb­bero fini­to per mon­tar­si la tes­ta. Invece Noam Chom­sky, a 75 anni appe­na com­piu­ti (il 7 dicem­bre), con­tin­ua a essere, per dir­lo all’americana, un “very nice guy”, un gran bra­vo ragaz­zo. A ved­er­lo trot­terel­lare da una stan­za all’altra del suo uffi­cio, nel Dipar­ti­men­to di lin­guis­ti­ca e filosofia del Mit (Mass­a­chu­setts Insti­tute of Tech­nol­o­gy) di Boston, indaf­fara­to con lib­ri e scat­oloni nei prepar­a­tivi di un immi­nente traslo­co, si sten­ta a credere che si trat­ti del­la stes­sa per­sona che a fine otto­bre, durante un viag­gio a Cuba, ha tuona­to con­tro l’intervento mil­itare in Iraq, crit­i­can­do allo stes­so tem­po il regime cas­trista per l’incarcerazione di numerosi dis­si­den­ti.

A mag­gior ragione sem­bra incred­i­bile che qual­cuno l’abbia defini­to «l’ayatollah dell’odio anti­amer­i­cano», come ha fat­to David Horowitz, un Giu­liano Fer­rara d’oltreoceano che dopo aver colti­va­to sim­patie stal­in­iste ha abbrac­cia­to la fede ultra­con­ser­va­trice. A questo genere di epiteti e di giudizi con­trastan­ti, comunque, Chom­sky ha ormai fat­to il cal­lo. Diver­si anni or sono disse: «Da quan­do ho svilup­pa­to una coscien­za polit­i­ca, mi sono sem­pre sen­ti­to solo o parte di una pic­co­la mino­ran­za».

Il movi­men­to con­tro le guerre in Iraq e in Afghanistan però non può essere liq­uida­to come una pic­co­la mino­ran­za. Lei stes­so lo ha defini­to «una grande poten­za». Si sente anco­ra solo?
In effet­ti, gra­zie al movi­men­to che si è for­ma­to negli ulti­mi anni, oggi mi sen­to molto meno iso­la­to. La scrit­trice indi­ana Arund­hati Roy ha scrit­to l’introduzione per la ristam­pa di un mio vec­chio libro (“For Rea­sons of State”, ndr), inti­to­la­ta “La soli­tu­dine di Noam Chom­sky”. Un anno fa abbi­amo parte­ci­pa­to entram­bi a un dibat­ti­to orga­niz­za­to al Forum sociale mon­di­ale di Por­to Ale­gre, di fronte a cir­ca 20mila per­sone, e lei ha com­in­ci­a­to a leg­gere alcu­ni brani da quel­la intro­duzione. Devo dire che non mi sono sen­ti­to par­ti­co­lar­mente solo, in quel momen­to… Quin­di, evi­den­te­mente, le cose sono cam­bi­ate.

Con le sue tesi rad­i­cali e con­tro­cor­rente ha cam­bi­a­to la visione del mon­do di molte per­sone. C’è qual­cuno che ha avu­to un’influenza sim­i­le su di lei?
Sì, più di uno in effet­ti, ma prob­a­bil­mente il più influ­ente è sta­to un mio zio che abita­va a New York. Era un uomo molto inter­es­sante, sen­za un’istruzione for­male, ma per molti aspet­ti la per­sona più col­ta che abbia mai conosci­u­to. In realtà, tut­to l’ambiente che lo cir­con­da­va era molto vivo dal pun­to di vista cul­tur­ale, ed era for­ma­to soprat­tut­to da immi­grati del­la pri­ma gen­er­azione, in mag­gio­ran­za operai dis­oc­cu­pati che non era­no mai andati a scuo­la. Non so se in Italia il pro­le­tari­a­to avesse queste carat­ter­is­tiche, ma in quel peri­o­do qui negli Sta­ti uni­ti gli immi­grati del­la classe opera­ia, com­pre­si gli ital­iani, era­no molto coin­volti nel­la vita cul­tur­ale, nel­la musi­ca, nell’arte, e ovvi­a­mente anche nel­la polit­i­ca. Mio zio era l’unica per­sona nel­la famiglia ad avere un lavoro, ma solo per­ché, essendo zop­po, ave­va approf­itta­to di un pro­gram­ma munic­i­pale a favore dei dis­abili, ed era rius­ci­to a ottenere la ges­tione di una pic­co­la edi­co­la all’uscita del­la met­ro­pol­i­tana all’incrocio tra la 72esima stra­da e Broad­way. All’epoca ave­vo 12 anni e vive­vo a Filadelfia, ma spes­so pren­de­vo il treno da solo per andare a trovar­lo a New York. È curioso, ma dopo la sec­on­da guer­ra mon­di­ale, per qualche stra­no moti­vo che fac­cio fat­i­ca a com­pren­dere, l’ambiente è diven­ta­to molto più ostile. Io e mia moglie non abbi­amo mai per­me­s­so ai nos­tri figli di andare in giro da soli, ma quan­do ero bam­bi­no questo prob­le­ma non si pone­va nem­meno.

Michael Moore, nel suo doc­u­men­tario “Bowl­ing a Columbine”, ha par­la­to di una «cul­tura del­la pau­ra».
Ho vis­to il doc­u­men­tario di Moore e pen­so anch’io che questo sia in parte un prob­le­ma di percezione e in parte mito. Trent’anni fa, per esem­pio, ha com­in­ci­a­to a cir­co­lare una sto­ria sec­on­do cui ai bam­bi­ni, durante la fes­ta di Hal­loween, veni­vano dis­tribuite caramelle avve­le­nate, e i gen­i­tori han­no com­in­ci­a­to ad accom­pa­gnare i figli nelle loro uscite ser­ali. Tut­ti ci cre­de­vano, io e mia moglie com­pre­si, ma si è poi scop­er­to che si trat­ta­va di una bufala asso­lu­ta e che non si era mai ver­i­fi­ca­to nes­sun caso di avve­le­na­men­to. Il cli­ma di pau­ra che si è venu­to a creare nel­la nos­tra soci­età è sor­pren­dente. Quan­do i miei figli era­no pic­coli, una quar­an­ti­na di anni fa, a scuo­la veni­va loro inseg­na­to di nascon­der­si sot­to i banchi per pro­tegger­si dagli attac­chi nucleari. Era un modo per indurre pau­ra, che face­va pas­sare un’idea del mon­do come luo­go ter­ri­bile e ostile. Questo, in ulti­ma istan­za, è anche il moti­vo per cui la mag­gio­ran­za degli amer­i­cani ha fini­to per credere che Sad­dam Hus­sein li avrebbe uccisi.

Lei denun­cia da anni il ruo­lo eserci­ta­to dai media nelle soci­età demo­c­ra­tiche. Da questo pun­to di vista, la situ­azione sem­bra essere rimas­ta sostanzial­mente la stes­sa.
In realtà ci sono sta­ti dei cam­bi­a­men­ti, in direzioni diverse. La con­cen­trazione del cap­i­tale è un fenom­e­no nat­u­rale, che è anda­to avan­ti da quan­do esiste il cap­i­tal­is­mo, e il set­tore dei mass media non ha fat­to eccezione. L’Italia rap­p­re­sen­ta un caso estremo, ma anche negli Sta­ti uni­ti è avvenu­to qual­cosa di sim­i­le. Ben Bagdikian, che è sta­to un gior­nal­ista piut­tosto conosci­u­to del Wash­ing­ton Post pri­ma di diventare diret­tore del­la scuo­la di gior­nal­is­mo del­la Uni­ver­sità di Berke­ley, in Cal­i­for­nia, vent’anni fa ha scrit­to un libro inti­to­la­to “The Media Monop­oly”, in cui anal­iz­za­va la con­cen­trazione del­la pro­pri­età dei mezzi di comu­ni­cazione negli Sta­ti uni­ti. Da allo­ra, ogni due anni, Bagdikian ha pub­bli­ca­to una nuo­va edi­zione aggior­na­ta, e ogni vol­ta il numero delle prin­ci­pali aziende oper­an­ti nei media si era ridot­to. La pri­ma edi­zione ne ave­va indi­vid­u­ate una cinquan­ti­na, oggi invece sono solo sei. Ques­ta ten­den­za alla con­cen­trazione non è solo amer­i­cana, ma ha una con­no­tazione inter­nazionale, come tes­ti­mo­ni­ano, per esem­pio, l’impero di Mur­doch o le pub­bli­cazioni Berte­les­mann. Monop­o­lio a parte, un’altra ten­den­za è quel­la che spinge ver­so una pro­gres­si­va vol­gar­iz­zazione dei media. Gli investi­tori pub­blic­i­tari, infat­ti, non pagano per fare ragionare le per­sone, ma per fare in modo che siano pas­sive e obbe­di­en­ti. Non è un caso, dunque, se in tele­vi­sione il tem­po occu­pa­to dal­la pub­blic­ità che fa il lavag­gio del cervel­lo agli spet­ta­tori con­tin­ua a crescere, men­tre quel­lo ris­er­va­to all’informazione è sem­pre più risi­ca­to. Nel 1979 ho vis­su­to per un po’ di tem­po in Italia, a Pisa, e guar­da­vo la tele­vi­sione per tentare di impara­re un po’ di ital­iano. All’epoca la pub­blic­ità era con­fi­na­ta negli inter­val­li tra un pro­gram­ma e l’altro, ma durante la mia visi­ta suc­ces­si­va in Italia mi sono accor­to che gli spot ave­vano ormai pre­so il sopravven­to. Lo stes­so fenom­e­no è avvenu­to negli Sta­ti uni­ti e non ha risparmi­a­to nep­pure i gior­nali, anche se in tele­vi­sione ha un impat­to più estremo.

Eppure il gior­nal­is­mo amer­i­cano spes­so viene cel­e­bra­to come un mod­el­lo di indipen­den­za e obi­et­tiv­ità.
Le cose non stan­no pro­prio così. Anche in un quo­tid­i­ano con­sid­er­a­to serio e autorev­ole come il New York Times, infat­ti, quan­do i pezzi grossi si riu­nis­cono alle quat­tro del pomerig­gio per decidere la strut­tura del gior­nale, per pri­ma cosa impostano la dis­tribuzione delle inserzioni pub­blic­i­tarie nelle varie pagine. Solo dopo questo pas­sag­gio si occu­pano di quelle che ven­gono def­i­nite le “news holes”, vale a dire i buchi nel­la pub­blic­ità in cui pos­sono essere inserite le notizie. Nell’industria tele­vi­si­va la divi­sione è tra “con­tent” e “fill”, tra “con­tenu­to” e “riem­pi­ti­vo”. Con­trari­a­mente a quan­to si potrebbe pen­sare, il con­tenu­to, la parte più impor­tante, è rap­p­re­sen­ta­to dal­la pub­blic­ità, men­tre il riem­pi­ti­vo è ciò che tiene lo spet­ta­tore incol­la­to al tele­vi­sore tra un bloc­co pub­blic­i­tario e l’altro. I sol­di, la cre­ativ­ità, l’energia e gli sforzi che ven­gono ded­i­cati all’elaborazione del­la pub­blic­ità super­a­no di gran lun­ga quel­li investi­ti nell’informazione e nei pro­gram­mi. La pub­blic­ità, infat­ti, deve essere vivace e dram­mat­i­ca. Quan­do mi capi­ta di assis­tere con mia moglie agli spot tele­vi­sivi, spes­so non rius­ci­amo nep­pure a capire qual è il prodot­to che viene reclamiz­za­to, per­ché la pub­blic­ità è preva­len­te­mente riv­ol­ta ai gusti di ado­les­cen­ti e ven­ten­ni. È come quan­do ten­to di guardare i video­giochi di mio nipote: io non capis­co nul­la di quel­lo che suc­cede, lui invece sì. Il pub­bli­co tele­vi­si­vo è com­pos­to preva­len­te­mente da per­sone anziane, di 60 o 70 anni, che sono anche quelle che in gen­erale han­no la mag­giore disponi­bil­ità di denaro. I pro­gram­mi tele­vi­sivi, però, non si riv­ol­go­no a loro, ma ai gio­vani.

Non è una scelta para­dos­sale?
È un para­dos­so solo appar­ente, per­ché numerosi stu­di han­no dimostra­to che la “brand loy­al­ty”, ovvero la fedeltà del­la gente alle varie marche, si svilup­pa molto presto, per­ciò se com­in­ci a com­prare un cer­to tipo di prodot­to quan­do hai 15 anni, è prob­a­bile che con­tin­uerai ad acquis­tar­lo per il resto del­la tua vita. I pub­blic­i­tari, quin­di, devono fare pre­sa sulle per­sone quan­do sono anco­ra gio­vani. È incred­i­bile il modo in cui queste cam­pagne pub­blic­i­tarie ven­gono elab­o­rate. C’è addirit­tura una bran­ca di psi­colo­gia appli­ca­ta che stu­dia i capric­ci dei bam­bi­ni. I bam­bi­ni, infat­ti, con le loro insis­ten­ze pos­sono portare i gen­i­tori all’esasperazione e spinger­li a com­prare. Le risorse e le energie inves­tite nel­la pub­blic­ità van­no a sostenere questo tipo di strate­gie, e il loro effet­to sui mezzi di comu­ni­cazione è enorme. D’altra parte, esiste una con­tro­ten­den­za, rap­p­re­sen­ta­ta dal fat­to che la soci­età sta diven­tan­do più civ­i­liz­za­ta, come dimostra­no i dirit­ti delle donne, la sal­va­guardia dell’ambiente e una serie di altre ques­tioni di cui la gente, a dif­feren­za che in pas­sato, adesso si pre­oc­cu­pa. I media non pos­sono non ten­er con­to di questi cam­bi­a­men­ti e la pub­blic­ità deve adat­tar­si alle nuove carat­ter­is­tiche dell’audience.

Crede davvero che la situ­azione pos­sa miglio­rare gra­zie a questi cam­bi­a­men­ti? Le vicende ital­iane non sem­bra­no gius­ti­fi­care un grande ottimis­mo…
In effet­ti molti miei ami­ci gior­nal­isti, inclusi alcu­ni piut­tosto noti, han­no deciso di cam­biare lavoro per­ché non rius­ci­vano più a sop­portare le costan­ti pres­sioni che subi­vano. Il set­tore dei media indipen­den­ti, però, è molto promet­tente. Gra­zie ai pas­si avan­ti com­piu­ti dal­la tec­nolo­gia, con inves­ti­men­ti abbas­tan­za ridot­ti è ormai pos­si­bile rag­giun­gere un pub­bli­co molto vas­to. Ci sono molti modi per comu­ni­care, da Inter­net alla tele­vi­sione via cavo, che per­me­t­tono di fare a meno dei media uffi­ciali, e di fat­to qua­si tutte le mobil­i­tazioni degli ulti­mi anni sono state pro­mosse attra­ver­so questi mezzi di comu­ni­cazione alter­na­tivi. Le inizia­tive con­tro il G8 di Gen­o­va, per esem­pio, sono state orga­niz­zate inter­a­gen­do preva­len­te­mente via Inter­net.

Gen­o­va, però, viene ricor­da­ta soprat­tut­to per la vio­len­za delle forze dell’ordine con­tro i man­i­fes­tanti.
I fat­ti di Gen­o­va mi han­no col­pi­to pro­fon­da­mente. Qual­cosa di sim­i­le è accadu­to a Mia­mi alla fine di novem­bre, durante le man­i­fes­tazioni con­tro i negoziati del­la Ftaa, l’area di libero com­mer­cio delle Americhe. Ho par­la­to con diverse per­sone che era­no pre­sen­ti e mi han­no det­to che sem­bra­va di essere sot­to una vio­len­ta dit­tatu­ra mil­itare. È sig­ni­fica­ti­vo che gli 8,5 mil­ioni di dol­lari spe­si in quel­la occa­sione per il servizio di sicurez­za siano sta­ti prel­e­vati diret­ta­mente dai fon­di che il Con­gres­so ha stanzi­a­to per la guer­ra in Iraq, e anche che al segui­to del­la polizia ci fos­sero dei reporter “embed­ded”, arruo­lati, pro­prio come in Iraq, con addos­so giub­bot­ti antiproi­et­tile ed elmet­ti da com­bat­ti­men­to. Purtrop­po la repres­sione delle man­i­fes­tazioni sta diven­tan­do sem­pre più bru­tale in tut­to il mon­do. La polizia ormai si allena per preparar­si alla ges­tione di queste man­i­fes­tazioni e c’è una sor­ta di coop­er­azione inter­nazionale in questo sen­so. In nazioni come gli Sta­ti uni­ti e, pen­so, l’Italia, non cre­do però che ques­ta repres­sione fun­zion­erà. C’è trop­pa lib­ertà e trop­pa resisten­za per­ché pos­sa fun­zionare. Pos­sono pren­der­sela con i poveri o le mino­ranze, ma la mag­gio­ran­za del­la popo­lazione non tollera la repres­sione. Qui negli Sta­ti uni­ti, per esem­pio, c’è sta­ta un’interessante reazione all’introduzione del Patri­ot Act, approva­to in sor­di­na dopo l’11 set­tem­bre sen­za che vi fos­se alcun tipo di dis­cus­sione. Le bib­lioteche pub­bliche, per esem­pio, han­no dis­trut­to i pro­pri reg­istri per­ché non vol­e­vano che fos­sero sot­to­posti alla sorveg­lian­za del Fbi. Nei mesi scor­si ho parte­ci­pa­to a diver­si incon­tri in tut­to il Paese, anche in luoghi tradizional­mente molto con­ser­va­tori, e ho nota­to che la gente è pronta a difend­ere i pro­pri dirit­ti.

In altri Pae­si, però, ques­ta resisten­za può costare molto cara.
È vero, ma è altret­tan­to vero che ci vivono per­sone con un cor­ag­gio incred­i­bile. Nel 2002 sono sta­to un paio di volte in Turchia e ho conosci­u­to molti intel­let­tuali, pro­fes­sori uni­ver­si­tari, gior­nal­isti, edi­tori e scrit­tori costan­te­mente impeg­nati in azioni di dis­obbe­dien­za civile. Lo fan­no sen­za pretese di alcun tipo e spes­so finis­cono in pri­gione, ma la loro tena­cia, un po’ alla vol­ta, sta aven­do degli effet­ti pos­i­tivi. Purtrop­po in altri Pae­si la situ­azione è anco­ra più com­pli­ca­ta. Di recente sono sta­to in Colom­bia, il pos­to che in asso­lu­to mi ha fat­to più pau­ra tra quel­li che ho vis­i­ta­to, dove in media avven­gono ven­ti omi­ci­di politi­ci al giorno. E non mi han­no nep­pure per­me­s­so di tenere una con­feren­za stam­pa.

Il prossi­mo novem­bre si voterà per eleg­gere il pres­i­dente degli Sta­ti uni­ti. Al momen­to il favorito tra i can­di­dati demo­c­ra­ti­ci sem­bra essere Howard Dean, che si è sem­pre dichiara­to con­trario alla guer­ra in Iraq e ha ottenu­to anche l’ap­pog­gio di Al Gore. Pen­sa che potrebbe spun­tar­la con­tro Bush?
Per il sis­tema politi­co amer­i­cano, Dean è un can­dida­to cred­i­bile. È intel­li­gente, ha delle idee, ed è abbas­tan­za indipen­dente. Il prob­le­ma è che negli Sta­ti uni­ti man­ca una vera cul­tura demo­c­ra­t­i­ca. Le elezioni ven­gono com­prate, e se vuoi vin­cere non puoi fare a meno di ottenere l’appoggio finanziario di ampi set­tori del mon­do eco­nom­i­co. In prat­i­ca devi accettare di diventare il loro can­dida­to. Non è come in Brasile, dove i movi­men­ti popo­lari pos­sono rius­cire a far eleg­gere il loro pres­i­dente. Una cosa del genere qui è incon­cepi­bile, ed è per ques­ta ragione che molti non pren­dono sul serio le elezioni. Con­sid­er­ate le opzioni disponi­bili, Dean non è male come can­dida­to, ma il prob­le­ma è che non può vin­cere. Pen­so che l’unico can­dida­to demo­c­ra­ti­co che abbia qualche chance di farcela, anche se non cre­do che suc­ced­erà, sia Wes­ley Clark. Non per buoni motivi, ma solo per­ché può dire, gra­zie alla sua car­ri­era da gen­erale, di essere in gra­do di uccidere più per­sone di Bush. I repub­bli­cani durante la cam­pagna elet­torale pun­ter­an­no tut­to sul­la ques­tione sicurez­za, e l’unico demo­c­ra­ti­co che può reg­gere il con­fron­to su questo piano è Clark. È per questo che immag­i­no che alla fine sarà lui ad affrontare Bush. E la prospet­ti­va non mi entu­si­as­ma.

Lei è sem­pre sta­to molto criti­co nei con­fron­ti degli Sta­ti uni­ti, eppure recen­te­mente ha det­to che non andrebbe mai a vivere altrove per­ché sono il miglior Paese del mon­do…
Fare una clas­si­fi­ca delle nazioni in realtà non ha molto sen­so. Direi piut­tosto che gli Sta­ti uni­ti han­no delle carat­ter­is­tiche che riten­go molto pos­i­tive. Una di queste è senz’altro la lib­ertà di espres­sione, e un’altra è rap­p­re­sen­ta­ta dal­la qual­ità delle relazioni per­son­ali. Le dif­feren­ze di classe, infat­ti, in questo tipo di relazioni sono sop­presse. Sia chiaro, dal pun­to di vista eco­nom­i­co le dis­ug­uaglianze sono tremende, ma quan­do par­li col tuo mec­ca­ni­co sei sul suo stes­so liv­el­lo, il prob­le­ma non si pone neanche. In Europa, al con­trario, le dif­feren­ze di classe sono evi­den­ti anche nelle relazioni per­son­ali. È un aspet­to che, da quel­lo che ho vis­to anche in Italia, si nota soprat­tut­to tra gli intel­let­tuali, che si pren­dono trop­po sul serio per­ché sono trop­po river­i­ti. Lo stes­so vale per il mon­do acca­d­e­mi­co. Negli Sta­ti uni­ti gli stu­den­ti sono trat­tati come tali, men­tre in Europa spes­so finis­cono per diventare i servi dei pro­fes­sori.

In pas­sato ha descrit­to l’inizio del­la sua car­ri­era acca­d­e­m­i­ca e il fat­to che sia rimas­to a vivere negli Sta­ti uni­ti come even­ti piut­tosto casu­ali. Ha mai rimpianto di non aver fat­to delle scelte diverse?
In realtà non ho mai avu­to mol­ta scelta. Le cose suc­ce­dono, sem­plice­mente, e uno non fa altro che adat­tar­si agli avven­i­men­ti. In effet­ti la mia vita avrebbe potu­to pren­dere un’altra direzione, ma sono arriva­to a fes­teggia­re 54 anni di mat­ri­mo­nio, quin­di, tut­to som­ma­to, mi è anda­ta abbas­tan­za bene.

Inter­vista pub­bli­ca­ta il 29 gen­naio 2004 sul set­ti­manale Car­ta

Arti­co­lo pub­bli­ca­to anche su Medi­um

Scrivi un commento

Commento