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Da diver­si mesi a ques­ta parte mi sor­pren­do sem­pre più spes­so a scuotere la tes­ta di fronte alla tv. Era suc­ces­so nel 2001, nei giorni del famiger­a­to G8 gen­ovese. Era ricap­i­ta­to poche set­ti­mane più tar­di, all’in­do­mani dell’11 set­tem­bre. E, di nuo­vo, è accadu­to nei giorni che han­no segui­to l’eu­fori­ca sbor­nia paci­fi­ca e paci­fista del 15 feb­braio.

Fin dal giorno in cui Bush figlio ha indi­ca­to in Sad­dam Hus­sein il nemi­co numero uno del piane­ta, rel­e­gan­do nel dimen­ti­ca­toio l’ex nemi­co numero uno Bin Laden, ho pen­sato che le bombe amer­i­cane nel giro di qualche mese avreb­bero ricom­in­ci­a­to a cadere sul­l’I­raq, ripren­den­do il dis­cor­so inter­rot­to da Bush padre nel 1991. Ques­ta certez­za, però, ha vac­il­la­to di fronte all’im­po­nente mobil­i­tazione del 15 feb­braio. Anch’io, come altri che han­no vis­su­to quel­la gior­na­ta in pri­ma per­sona, ho fini­to per illu­d­er­mi, almeno per qualche ora, che la coraz­za­ta paci­fista potesse davvero rius­cire ad affon­dare la guer­ra.

Ipocrisia e cattiva memoria

Di fronte ai mil­ioni di per­sone scese in piaz­za in tut­to il mon­do per difend­ere la pace, la macchi­na del­la pro­pa­gan­da bel­li­ca ha, in effet­ti, sbanda­to pau­rosa­mente, sal­vo ripren­dere a viag­gia­re più spedi­ta che mai subito dopo, facen­do leva su un bagaglio di argo­men­tazioni che pun­tual­mente, alla vig­ilia di ogni guer­ra “uman­i­taria”, viene tira­to giù dal­la sof­fit­ta. Così, nel giro di qualche set­ti­mana l’of­fen­si­va anti-Sad­dam, moti­va­ta inizial­mente con la neces­sità di dis­ar­mare il dit­ta­tore, si è trasfor­ma­ta, a sec­on­da delle neces­sità con­tin­gen­ti, in un’ap­pen­dice del­la lot­ta al ter­ror­is­mo di Al Quae­da e in una guer­ra per la lib­er­azione del popo­lo iracheno e per l’e­s­portazione del­la democrazia in tut­ta l’area medior­i­en­tale.

Uno degli ulti­mi conigli tirati fuori dal cilin­dro dai pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione è quel­lo che ten­ta di accred­itare ai falchi del­l’am­min­is­trazione Bush la volon­tà di con­seg­nare Sad­dam Hus­sein al tri­bunale inter­nazionale per i cri­m­i­ni con­tro l’u­man­ità. Come ci si può opporre a una guer­ra che mira ad assi­cu­rare alla gius­tizia un tiran­no che si è mac­chi­a­to di cri­m­i­ni orren­di con­tro il suo stes­so popo­lo? L’in­ter­rog­a­ti­vo lo ha pos­to, tra gli altri, dagli scher­mi del­la 7 anche Giu­liano Fer­rara, uno che è timi­do e bal­bet­tante se deve inter­vistare Cesare Previ­ti, ma recu­pera tut­ta la sua verve polem­i­ca quan­do si trat­ta di rifi­lare predi­cozzi moral­is­ti­ci e sor­risi­ni di sch­er­no al movi­men­to paci­fista.

A lui e agli altri cor­ti­giani che popolano il nos­tro malanda­to panora­ma medi­ati­co si può rispon­dere ricor­dan­do alcu­ni episo­di che met­tono bene in luce l’ipocrisia e la malafede del fronte mil­i­tarista. Non occorre fare lunghi salti indi­etro nel tem­po, anche se la cat­ti­va memo­ria del­la soci­età del­la (dis)informazione è tale che ricor­dare cer­ti avven­i­men­ti può avere lo stes­so fas­ci­no di una scop­er­ta arche­o­log­i­ca.

Pren­di­amo la Gran Bre­tagna di Tony Blair, prin­ci­pale alleato degli Usa nel­l’esca­la­tion guer­ra­fonda­ia degli ulti­mi mesi. Nel 1998 scop­pia il caso di Augus­to Pinochet, già dit­ta­tore golpista del Cile su manda­to degli Sta­ti Uni­ti, che si tro­va a Lon­dra quan­do la mag­i­s­tratu­ra spag­no­la ne chiede l’estradizione per cri­m­i­ni con­tro l’u­man­ità. Del fer­vore di oggi con­tro il dit­ta­tore Sad­dam, da con­seg­nare al tri­bunale inter­nazionale per i delit­ti commes­si con­tro il suo stes­so popo­lo, non c’è trac­cia nel gov­er­no Blair di allo­ra alle prese con il dit­ta­tore Pinochet, un macel­laio di vite umane esat­ta­mente come il raìs iracheno, che tra l’al­tro avrebbe potu­to essere con­seg­na­to alla gius­tizia sen­za ricor­rere a bom­bar­da­men­ti e stra­gi di civili. Così Pinochet, dopo una com­me­dia dura­ta alcu­ni mesi che provocò non pochi imbarazzi al gov­er­no di sua maestà, venne las­ci­a­to libero di ripren­dere la via del Cile.

Lo stes­so liv­el­lo di (in)coerenza si ritro­va nel­l’at­teggia­men­to inter­mit­tente del­l’am­min­is­trazione Bush rispet­to alla ques­tione palesti­nese, che sem­bra stare molto a cuore del pres­i­dente amer­i­cano e dei suoi con­siglieri più stret­ti solo quan­do si trat­ta di assi­cu­rar­si il sosteg­no dei pae­si ara­bi per i pro­pri prog­et­ti bel­li­ci. È sta­to così dopo l’11 set­tem­bre, quan­do il feel­ing con Sharon è giun­to ai min­i­mi stori­ci, per­ché il pri­mo min­istro israeliano si osti­na­va nel­la sua polit­i­ca di aggres­sione e umil­i­azione sis­tem­at­i­ca del popo­lo palesti­nese pro­prio men­tre gli Usa cer­ca­vano il più ampio appog­gio pos­si­bile a sosteg­no del­l’in­ter­ven­to in Afghanistan. Dopo gli attac­chi kamikaze di New York e Wash­ing­ton, Bush sem­bra­va infat­ti esser­si trasfor­ma­to in uno degli spon­sor più deter­mi­nati di uno sta­to palesti­nese, che avrebbe dovu­to sorg­ere fian­co a fian­co con quel­lo israeliano.

Una vol­ta chiusa la par­ente­si afghana e liq­uida­to il regime tale­bano, però, lo spar­ti­to del­la Casa Bian­ca ha ripreso a suonare la soli­ta, vec­chia musi­ca e i palesti­ne­si, da vit­time, sono tor­nati a essere sem­plice­mente dei ter­ror­isti. «Quan­do i palesti­ne­si avran­no nuovi leader e nuove isti­tuzioni demo­c­ra­tiche basate sul­la lib­ertà e la toller­an­za, gli Sta­ti Uni­ti soster­ran­no la nasci­ta di uno sta­to palesti­nese», ha dichiara­to Bush nel giug­no del 2002. Il che sig­nifi­ca, come ha sot­to­lin­eato Jonathan Freed­land sulle pagine del Guardian, che il pres­i­dente amer­i­cano «chiede alla Palesti­na di diventare la Svezia pri­ma di pot­er diventare la Palesti­na».

La ques­tione palesti­nese, però, è un argo­men­to trop­po ghiot­to per non sus­citare l’at­ten­zione dei pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione, che con i nuovi ven­ti di guer­ra sono tor­nati alla car­i­ca, legan­do la sua soluzione alla guer­ra con­tro il regime di Sad­dam. Una vol­ta lev­a­to lui di mez­zo e instau­ra­ta la democrazia in Iraq, anche il dram­ma dei palesti­ne­si si risolverà, ci spie­gano, sen­za aggiun­gere però come questo avver­rà, quan­to tem­po ci vor­rà e, soprat­tut­to, quale log­i­ca per­ver­sa leghi il des­ti­no del dit­ta­tore iracheno a quel­lo dei palesti­ne­si. In realtà, l’assen­za di questi pochi ma fon­da­men­tali det­tagli è elo­quente su quale sia il vero scopo di queste dichiarazioni, che mira­no sem­plice­mente a con­fondere le acque e a reclutare sosteg­no a cos­to zero per l’azione mil­itare immi­nente. Il resto lo farà la cat­ti­va memo­ria, e il con­flit­to arabo-israeliano potrà sem­pre tornare utile per gius­ti­fi­care il prossi­mo capi­to­lo del­la guer­ra pre­ven­ti­va inau­gu­ra­ta da Bush. Obi­et­tivi pos­si­bili, Corea del Nord a parte (ha l’atom­i­ca), l’I­ran, vec­chio palli­no degli Sta­ti Uni­ti, o, per­ché no?, l’Ara­bia Sau­di­ta, che non viene più con­sid­er­a­ta l’al­lea­ta fedele di un tem­po. Del resto è da lì che proveni­vano la mag­gior parte degli atten­ta­tori dell’11 set­tem­bre, e forse pri­ma o poi anche la Cia se ne accorg­erà…

L’e­len­co dei casi sim­ili che potreb­bero essere citati in questo con­testo non si esaurisce ovvi­a­mente qui. Come dimen­ti­care, per esem­pio, che pro­prio la recente cam­pagna bel­li­ca con­tro i tale­bani è sta­ta con­dot­ta con l’ap­pog­gio fon­da­men­tale di un altro dit­ta­tore, il gen­erale pachis­tano Musharaf (che oltre­tut­to dispone già del­la bom­ba atom­i­ca)? Come sot­to­va­l­utare il fat­to che lo stes­so Sad­dam Hus­sein, il Satana di oggi, negli anni Ottan­ta, all’e­poca del­la san­guinosa guer­ra con l’I­ran, gode­va del­l’ap­pog­gio del­l’am­min­is­trazione Usa, che gli fornì intel­li­gence satel­litare e altro appog­gio mil­itare per evitare la vit­to­ria ira­ni­ana, pur essendo a conoscen­za del fat­to che l’e­serci­to iracheno ave­va inte­gra­to il suo arse­nale con armi chimiche?

Si trat­ta di con­sid­er­azioni scon­tate, qua­si banali, eppure il cir­co dei media, tranne rare eccezioni, sof­fre di amne­sia e preferisce dare spazio ai soli­ti opin­ion­isti ed esper­ti mil­i­tari, che dis­cettano con mal­cela­ta, fan­ci­ullesca ecc­i­tazione sug­li effet­ti provo­cati da granate e bombe a grap­po­lo, e val­u­tano fred­da­mente, sen­za dare seg­no di un brici­o­lo di uman­ità, la pos­si­bil­ità del ricor­so agli ordig­ni nucleari, la cui evo­cazione è di per sé ter­ri­f­i­cante, per pie­gare la resisten­za irachena. È uno spet­ta­co­lo che provo­ca dis­a­gio, soprat­tut­to quan­do ci si rende con­to che lo stes­so copi­one è già sta­to recita­to tante volte e prevede un solo finale, la guer­ra, e le solite vit­time, i pover­ac­ci sen­za col­pa alcu­na, des­ti­nati a pas­sare alla sto­ria come “dan­ni col­lat­er­ali”.

È sta­to così nel ’91, quan­do l’e­serci­to iracheno, alla vig­ilia del­l’at­tac­co alleato, venne dip­in­to come uno dei più temi­bili al mon­do, sal­vo scioglier­si come neve al sole sot­to la piog­gia di mis­sili che ha sepolto il paese, las­cian­do però intat­to il suo regime. È sta­to così sul finire del 2001, quan­do nelle set­ti­mane prece­den­ti il con­flit­to in Afghanistan sono com­parse sui telescher­mi le immag­i­ni delle ter­ri­bili ese­cuzioni pub­bliche com­piute dai tale­bani, e il burqa è sta­to assur­to a sim­bo­lo del­la loro mal­vagità, trasfor­man­do quel­la che dove­va essere la cac­cia a Bin Laden in una guer­ra per l’e­man­ci­pazione delle donne afghane.

Sarà così anche ques­ta vol­ta. Anzi, è già così. Truppe di dis­si­den­ti, rifu­giati politi­ci, cur­di perse­gui­tati dal dit­ta­tore di Bagh­dad sono già sta­ti reclu­tati dai vari Ves­pa e Fer­rara per rac­con­tare agli ital­iani la mal­vagità di Sad­dam Hus­sein. Si pro­va tenerez­za a ved­er­li, così coc­co­lati e vezzeg­giati sot­to i riflet­tori degli stu­di tv, qua­si increduli di rice­vere tante atten­zioni dopo essere sta­ti snob­bati per anni, men­tre il mon­do cosid­det­to civile era impeg­na­to a esportare altrove la democrazia, insieme alle Nike e alla Coca Cola. Si pro­va rab­bia a sapere che, una vol­ta che anche la prat­i­ca Iraq sarà sta­ta archivi­a­ta, sono tut­ti des­ti­nati a sparire molto in fret­ta dai palins­es­ti, insieme ai loro dram­mi, men­tre i pred­i­ca­tori del­la dis­in­for­mazione di regime saran­no anco­ra lì, con le solite fac­ce di bron­zo e il copi­one già pron­to per gius­ti­fi­care la prossi­ma guer­ra.

Qual­cosa però sta cam­bian­do. L’im­po­nente mobil­i­tazione in favore del­la pace che il 15 feb­braio ha por­ta­to a man­i­festare nelle strade di tut­to il mon­do più di cen­to mil­ioni di per­sone è il risul­ta­to di una pre­sa di coscien­za che per molte per­sone va oltre il sem­plice “no” alla guer­ra. È dif­fi­cile indi­vid­uare tutte le moti­vazioni che han­no spin­to una mas­sa così etero­ge­nea a esprimere in modo tal­mente riso­lu­to la pro­pria avver­sione ai prog­et­ti mil­i­tari di Bush & C., ma è legit­ti­mo il sospet­to che molti, fino a ieri assue­fat­ti alle ver­ità uffi­ciali, abbiano final­mente com­in­ci­a­to a man­gia­re la foglia rispet­to al teatri­no dei pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione.

All’istin­ti­va avver­sione alla guer­ra come stru­men­to di risoluzione delle con­tro­ver­sie inter­nazion­ali, con l’inevitabile sparg­i­men­to di sangue inno­cente che essa com­por­ta a dis­pet­to delle bombe intel­li­gen­ti, e alla con­sapev­olez­za che la guer­ra all’I­raq finirebbe per aggravare, non elim­inare, i prob­le­mi legati al ter­ror­is­mo inter­nazionale, si sta som­man­do una cres­cente repul­sione nei con­fron­ti del­l’ipocrisia di politi­ci del (pic­co­lo) cal­i­bro di Bush, Blair e Berlus­coni, che dicono quel­lo che vogliono ma non spie­gano per­ché lo vogliono, e se lo fan­no insul­tano l’in­tel­li­gen­za di chi li ascol­ta. Parole come democrazia, lib­ertà o gius­tizia, usate quo­tid­i­ana­mente per gius­ti­fi­care il mas­sacro prossi­mo ven­turo del popo­lo iracheno, in boc­ca a loro suo­nano, infat­ti, come suonerebbe una bestem­mia in boc­ca al Papa.

Se Bush si fos­se pre­sen­ta­to davan­ti alle tele­camere e avesse spie­ga­to le vere ragioni per cui vuole attac­care l’I­raq, e per­ché lo vuole fare il più presto pos­si­bile, ovvero 1) che la sua ammin­is­trazione vuole ottenere il pieno con­trol­lo delle ingen­ti risorse petro­lif­ere del­la regione, 2) che la crisi eco­nom­i­ca statu­nitense è grave e bisogna fare in modo di riv­ol­gere altrove l’at­ten­zione del­l’opin­ione pub­bli­ca inter­na, 3) che l’in­dus­tria mil­itare made in Usa sfor­na in quan­tità armi di dis­truzione di mas­sa sem­pre più sofisti­cate che non pos­sono essere las­ci­ate a mar­cire negli arse­nali, 4) che dopo la man­ca­ta cat­tura di Osama Bin Laden in Afghanistan, e dunque il sostanziale fal­li­men­to del­la mis­sione, era nec­es­sario indi­vid­uare un altro nemi­co, pos­si­bil­mente non trop­po tosto, su cui sfog­a­re la rab­bia post-11 set­tem­bre, 5) che la per­ma­nen­za delle truppe nel­l’area del Gol­fo Per­si­co cos­ta all’er­ario a stelle e strisce un mil­iar­do di dol­lari alla set­ti­mana e dunque non si può per­me­t­tere di aspettare che gli ispet­tori Onu finis­cano in san­ta pace il loro lavoro per­ché rischia di restare in bol­let­ta, forse qual­cuno, anche tra col­oro che han­no sfi­la­to per la pace il 15 feb­braio, avrebbe per­lomeno apprez­za­to la sua sin­cer­ità. Forse. Ma Bush non è così sce­mo (o onesto, a sec­on­da dei pun­ti di vista) e dunque insiste nel propinar­ci la parabo­la del buon samar­i­tano impeg­na­to a esportare democrazia e benessere su tut­ta la fac­cia del­la ter­ra. E qual­cuno, purtrop­po, gli crede anco­ra.

Il movimento per la pace e l’antiamericanismo

Tra i bersagli su cui amano accanir­si i pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione guer­ra­fonda­ia, uno dei predilet­ti è quel­lo rap­p­re­sen­ta­to dal movi­men­to paci­fista, che fin dal­l’inizio del­l’esca­la­tion mil­itare ha espres­so la pro­pria oppo­sizione alla guer­ra all’I­raq “sen­za se e sen­za ma”. Se la cen­sura del­la man­i­fes­tazione del 15 feb­braio mes­sa in atto dal­la Rai ha avu­to l’u­ni­co effet­to di coprire di ridi­co­lo i già scred­i­tati ver­ti­ci azien­dali, la cred­i­bil­ità del mes­sag­gio di cui si è fat­to por­tav­oce il movi­men­to per la pace è invece minac­cia­ta ben più seri­amente dalle dis­tor­sioni del­la realtà por­tate avan­ti nel nos­tro paese dal­la pro­pa­gan­da di regime, in par­ti­co­lare sot­to due aspet­ti.

Da un lato si assiste all’osti­na­to ten­ta­ti­vo di sos­ti­tuire l’al­ter­na­ti­va aut­en­ti­ca tra guer­ra e pace, al cen­tro del mes­sag­gio paci­fista, con quel­la pos­tic­cia tra amer­i­can­is­mo e anti­amer­i­can­is­mo, con l’o­bi­et­ti­vo di liq­uidare le man­i­fes­tazioni di piaz­za come espres­sione di un anacro­nis­ti­co rig­ur­gi­to di sen­ti­men­ti vet­e­ro­co­mu­nisti o vet­eroses­san­tot­ti­ni. È forte il sospet­to che questo atteggia­men­to sprez­zante nei con­fron­ti di un movi­men­to che esprime in modo demo­c­ra­ti­co idee larga­mente con­di­vise rap­p­re­sen­ti una pecu­liar­ità tut­ta ital­iana, uno dei tan­ti sin­to­mi del­l’im­bar­bari­men­to di una soci­età e di una classe polit­i­ca il cui proces­so di mat­u­razione post-guer­ra fred­da è sta­to inter­rot­to dal­l’ir­re­sistibile asce­sa del­l’anom­alia berlus­co­ni­ana, col suo codaz­zo di Sgar­bi, Buttiglione, Schi­fani e pseudoin­tel­let­tuali vari in servizio di servil­is­mo per­ma­nente effet­ti­vo. Una soci­età in cui qual­si­asi opin­ione e pre­sa di posizione viene forzata­mente inter­pre­ta­ta facen­do rifer­i­men­to agli schiera­men­ti ide­o­logi­ci di mez­zo sec­o­lo fa. In due parole, una soci­età mala­ta.

Nel tranel­lo seman­ti­co volto a trasfor­mare “guer­ra” e “pace” in sinon­i­mi di “amer­i­can­is­mo” e “anti­amer­i­can­is­mo” sono purtrop­po cadu­ti anche alcu­ni rap­p­re­sen­tan­ti del movi­men­to paci­fista. Il giorno prece­dente la mar­cia per la pace del 15 feb­braio, il Cor­riere del­la Sera, per esem­pio, ha ded­i­ca­to un arti­co­lo agli slo­gan che sareb­bero sta­ti scan­di­ti in piaz­za dai man­i­fes­tanti, ripro­po­nen­do l’ac­costa­men­to tra paci­fis­mo e anti­amer­i­can­is­mo e inter­pel­lan­do a questo propos­i­to i por­tav­oce di alcu­ni grup­pi e asso­ci­azioni che ave­vano dato la pro­pria ade­sione all’ap­pel­lo del comi­ta­to orga­niz­za­tore. Si è riv­e­la­ta una let­tura piut­tosto depri­mente. Il testo era cir­conda­to da una serie di slo­gan puerili tut­ti riv­olti al dit­ta­tore di Bagh­dad, sul genere “Sad­dam assas­si­no, non fare il birichi­no”, e all’in­ter­no del­l’ar­ti­co­lo si assis­te­va alle imbaraz­zan­ti e imbaraz­zate acrobazie ver­bali dei por­tav­oce paci­fisti, impeg­nati a ras­si­cu­rare sul fat­to che la piaz­za avrebbe ris­er­va­to una buona dose di critiche e invet­tive anche al raìs iracheno, come se questo fos­se l’u­ni­co modo pos­si­bile per rispedire al mit­tente le accuse di anti­amer­i­can­is­mo.

È trop­po chiedere a col­oro che rap­p­re­sen­tano il movi­men­to per la pace nel cir­co medi­ati­co un salto di qual­ità nelle loro argo­men­tazioni? È trop­po chiedere loro di fare un pas­so indi­etro e rin­un­cia­re all’e­s­po­sizione medi­at­i­ca quan­do è chiaro che essa finirà soltan­to per portare acqua al muli­no di chi ha come uni­co scopo quel­lo di dele­git­ti­mare il mes­sag­gio paci­fista? In quel­l’ar­ti­co­lo del Cor­riere del­la Sera, così come in qua­si tutte le trasmis­sioni tele­vi­sive andate in onda negli ulti­mi tem­pi, sarebbe sta­to più incor­ag­giante, e più sen­sato, trovare altre risposte. Risposte ovvie, banali, scon­tate, che tut­tavia sten­tano a emerg­ere dal fras­tuono dei jet, dei sol­dati e delle por­taerei che si stan­no ammas­san­do nel Gol­fo Per­si­co.

Essere per la pace non sig­nifi­ca schier­ar­si dal­la parte di Sad­dam Hus­sein con­tro gli Sta­ti Uni­ti o, per met­ter­la in altri ter­mi­ni, preferire la dit­tatu­ra alla democrazia. La scelta di scen­dere in piaz­za per chiedere la pace men­tre la guer­ra appare ormai scon­ta­ta è, al con­trario, un seg­no di fidu­cia e di amore per la democrazia, che nelle libere man­i­fes­tazioni tro­va una delle sue espres­sioni più aut­en­tiche. Tan­to più in una fase stor­i­ca come quel­la attuale, carat­ter­iz­za­ta da una frat­tura sem­pre più pro­fon­da tra cit­ta­di­ni e isti­tuzioni, tra rap­p­re­sen­tati e rap­p­re­sen­tan­ti, con i vari Bush e Berlus­coni impeg­nati a difend­ere solo ed esclu­si­va­mente gli inter­es­si delle ristrette oli­garchie di potere di cui sono espres­sione.

La vera deri­va dit­ta­to­ri­ale è quel­la di chi pre­tende di ammu­tolire ogni for­ma di dis­senso sven­tolan­do lo spet­tro del­la guer­ra e del ter­ror­is­mo. Quel­la di chi, come il pres­i­dente Usa, impone ai suoi concit­ta­di­ni e agli altri pae­si un ricat­to inac­cetta­bile, dichiaran­do «o con noi, o con­tro di noi», come se il mon­do fos­se una par­ti­ta di Risiko e la pos­ta in gio­co qualche car­roar­ma­to di plas­ti­ca. Quel­la di chi, come sta avve­nen­do nel nos­tro paese, vuole trasfor­mare il Par­la­men­to in un luo­go super­fluo, des­ti­na­to a pren­dere atto di deci­sioni assunte altrove, e si affi­da alla retor­i­ca stan­tia dei “nos­tri ragazzi” per descri­vere i mil­i­tari pro­fes­sion­isti pagati pro­fu­mata­mente che sono sta­ti inviati in Afghanistan a sos­ti­tuire le truppe amer­i­cane. Quel­la di chi, come l’at­tuale vicepres­i­dente del Con­siglio, fino a qualche anno fa dichiar­a­va pub­bli­ca­mente di con­sid­er­are un dit­ta­tore, Mus­soli­ni, il più grande sta­tista del XX sec­o­lo, o quel­la di chi, come un min­istro leghista del­l’at­tuale gov­er­no, pren­de­va l’aereo per portare la sua sol­i­da­ri­età a un dit­ta­tore, Milo­se­vic, e vicev­er­sa non bat­te­va ciglio men­tre mil­i­tan­ti del suo par­ti­to cospargevano di pis­cio di maiale il ter­reno di un paese des­ti­na­to a ospitare una moschea.

La scelta di scen­dere in piaz­za in dife­sa del­la pace deri­va anche dal­la ver­gogna e dal­l’in­caz­zatu­ra che provi­amo nel­l’essere gov­er­nati da per­son­ag­gi del genere in una fase stor­i­ca così del­i­ca­ta. Dal­l’an­gos­cia di vedere il mon­do di cui fac­ciamo parte, il mon­do sedi­cente civile, imbar­car­si in una guer­ra assur­da, che nasce da moti­vazioni che nul­la han­no a che vedere con la democrazia o con la gius­tizia. I nos­tri slo­gan con­tro Bush, Blair e Berlus­coni nascono dal­la con­vinzione, sper­an­za o illu­sione che, pro­prio per­ché vivi­amo in una democrazia, la nos­tra opin­ione dovrebbe essere tenu­ta in con­sid­er­azione, e dal­la con­sapev­olez­za che la scelta tra la guer­ra e la pace è nelle loro mani, non in quelle di Sad­dam. Per­ché poi spre­care il fia­to con­tro un dit­ta­tore come quel­lo iracheno che, essendo un dit­ta­tore, per definizione non si las­cia cer­to con­dizionare da urla scan­dite a migli­a­ia di chilometri di dis­tan­za? Per far con­tenti gli “autorevoli” pen­niven­doli che fig­u­ra­no sul volu­mi­noso libro paga del nos­tro pres­i­dente del Con­siglio?

In quan­to all’ac­cusa di anti­amer­i­can­is­mo, è bene anche chiarire che cosa si inten­da per “Amer­i­ca”. L’Amer­i­ca delle migli­a­ia di per­sone che sono scese in piaz­za negli Sta­ti Uni­ti il 15 feb­braio per fer­mare la guer­ra, ren­den­dosi per questo colpevoli di antipa­tri­ot­tismo di fronte al tri­bunale dei media di regime, o l’Amer­i­ca del­l’am­min­is­trazione Bush, impeg­na­ta a sper­per­are mil­iar­di di dol­lari nei suoi prog­et­ti da dot­tor Stranamore, men­tre set­tori impor­tan­ti come la san­ità e l’istruzione subis­cono un ulte­ri­ore dete­ri­o­ra­men­to a scapi­to delle fasce sociali più deboli? Se l’Amer­i­ca è quest’ul­ti­ma, beh sì, per quan­to mi riguar­da mi con­sidero anti­amer­i­cano, così come mi sta bene essere con­sid­er­a­to anti­tal­iano, se per Italia si intende quel­la rap­p­re­sen­ta­ta da Berlus­coni, Bossi e Fini.

Il pacifismo e l’opposizione al pensiero unico neoliberista

Nel nos­tro panora­ma medi­ati­co, aneste­tiz­za­to dai pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione, quel­lo del­l’an­ti­amer­i­can­is­mo non è purtrop­po l’u­ni­co stereotipo per­pet­u­a­to ai dan­ni del movi­men­to per la pace. Si assiste, infat­ti, anche a una ten­den­za sis­tem­at­i­ca a ridurre il mes­sag­gio paci­fista a utopia irre­al­iz­z­abile, buono cioè per i dis­cor­si del Papa ma non prat­i­ca­bile nel mon­do reale. Questo stereotipo è spes­so accom­pa­g­na­to dal­la frase «siamo tut­ti per la pace, ma…», dove quel “ma”, nelle inten­zioni di chi lo pro­nun­cia, dovrebbe chi­ud­ere il dis­cor­so una vol­ta per tutte. Il guaio è che spes­so lo chi­ude davvero.

Troppe volte la prat­i­ca del paci­fis­mo viene dec­li­na­ta esclu­si­va­mente al neg­a­ti­vo, ovvero come rifi­u­to del­la guer­ra sen­za se e sen­za ma, pro­prio come recita­va lo slo­gan scel­to per la man­i­fes­tazione del 15 feb­braio. Nel caso del­la guer­ra volu­ta da Bush e dai suoi com­pli­ci europei, questo tipo di dec­li­nazione sem­bra suf­fi­ciente, per­ché le ragioni addotte per gius­ti­fi­care l’at­tac­co sono del tut­to pretes­tu­ose, così come appare del tut­to arbi­traria la scelta del­l’I­raq come obi­et­ti­vo. In gen­erale, però, descri­vere il paci­fis­mo come sem­plice negazione del­la guer­ra può riv­e­lar­si un lim­ite che offre il fian­co al cin­is­mo degli imbon­i­tori di regime. L’abusato paragone con quan­to avvenu­to durante la sec­on­da guer­ra mon­di­ale, infat­ti, è sem­pre in aggua­to e, per quan­to insosteni­bile, rischia davvero di far apparire la scelta del­la pace come un’opzione fuori dal­la log­i­ca delle cose. Per con­trastare ques­ta even­tu­al­ità, è fon­da­men­tale tentare di far emerg­ere dalle neb­bie del­la dis­in­for­mazione i com­por­ta­men­ti con­creti in cui può tradur­si la filosofia paci­fista, così da smascher­are l’ipocrisia di chi indi­ca nel­la guer­ra l’u­ni­co stru­men­to effi­cace per scon­fig­gere il ter­ror­is­mo inter­nazionale ed esportare la democrazia.

A questo propos­i­to, è utile citare un altro episo­dio ormai dimen­ti­ca­to nel­lo sgabuzzi­no del­la sto­ria, benché risal­ga a una man­ci­a­ta di anni fa soltan­to. È un episo­dio che ha come sce­nario la Nige­ria, come pro­tag­o­nisti prin­ci­pali il gov­er­no del paese africano e la Shell, la multi­nazionale petro­lif­era anglo-olan­dese, e come vit­time il poeta e scrit­tore Ken Saro-Wiwa e altre otto per­sone del popo­lo degli ogo­ni, tut­ti con­dan­nati all’impicca­gione dal­la dit­tatu­ra mil­itare del gen­erale Sani Abacha. La loro col­pa? Aver denun­ci­a­to pub­bli­ca­mente i gravi dan­ni provo­cati all’e­co­sis­tema del delta del Niger dalle triv­el­lazioni del sot­to­suo­lo com­piute dal­la Shell per qua­si quar­an­t’an­ni. Il 10 novem­bre 1995 la con­dan­na a morte viene ese­gui­ta sen­za che la multi­nazionale del petro­lio abbia mosso un dito per per­orare la causa di Saro-Wiwa e degli altri otto ogo­ni e per stig­ma­tiz­zare la loro ingius­ta deten­zione. Doven­do scegliere, la Shell ha prefer­i­to non inimi­car­si il regime di Abacha per con­tin­uare ad assi­cu­rar­si i lucrosi prof­itti derivan­ti dal­lo sfrut­ta­men­to inten­si­vo dei giaci­men­ti nige­ri­ani.

Chi, in buona fede, fino­ra ha con­sid­er­a­to il paci­fis­mo alla stregua di un’u­topia fine a se stes­sa forse, alla luce di vicende come ques­ta, rimet­terà in dis­cus­sione il suo giudizio. Il paci­fis­mo, infat­ti, oltre al rifi­u­to tout court del­la guer­ra impone anche una coeren­za di com­por­ta­men­ti volti a creare le con­dizioni che ren­dano inutile il ricor­so alle armi. Ciò sig­nifi­ca che la pace non è uno sta­to di cose che si può sem­plice­mente imporre con la forza, mag­a­ri dis­lo­can­do qualche centi­naio di caschi blu delle Nazioni Unite in qualche ango­lo del globo, ben­sì un proces­so che si costru­isce nel tem­po attra­ver­so scelte con­crete che non pos­sono e non devono essere in con­trasto con i prin­cipi su cui si fon­dano le nos­tre soci­età.

Essere paci­fisti sig­nifi­ca per­ciò pre­tendere dalle nos­tre isti­tuzioni, dalle nos­tre indus­trie, dai nos­tri concit­ta­di­ni, e anche da noi stes­si, la mes­sa in prat­i­ca dei val­ori di lib­ertà, gius­tizia, uguaglian­za e democrazia di cui le soci­età occi­den­tali si van­tano di essere fautri­ci. Pre­tendere, per esem­pio, dal gov­er­no Blair, il rispet­to di una delle promesse elet­torali del 1997, che con­tribuì a riportare i laburisti al potere dopo qua­si un ven­ten­nio trascor­so all’op­po­sizione. Ovvero l’im­peg­no, presto smen­ti­to dai fat­ti, di fare del rispet­to dei dirit­ti umani il car­dine del­la pro­pria polit­i­ca estera, pre­stando par­ti­co­lare atten­zione al com­por­ta­men­to delle aziende bri­tan­niche che oper­a­no o esportano in altri pae­si, a par­tire dal­la fiorente indus­tria mil­itare. Pre­tendere, allo stes­so modo, che le multi­nazion­ali vengano chia­mate a rispon­dere delle loro respon­s­abil­ità quan­do si ren­dono com­pli­ci delle male­fat­te di regi­mi dit­ta­to­ri­ali, come nel caso del­la Shell in Nige­ria, e ogni vol­ta che in nome del prof­it­to calpes­tano i dirit­ti umani, approf­ittan­do del­la loro posizione di forza. Pre­tendere che l’am­min­is­trazione Usa non for­nisca più alcun tipo di sup­por­to ad alcun tipo di dit­tatu­ra, per­ché i dit­ta­tori ami­ci di oggi sono des­ti­nati a diventare i satana di domani. Pre­tendere che Bush la smet­ta di prestare un po’ di atten­zione all’opin­ione degli altri gov­erni solo quan­do si trat­ta di rac­cattare alleati a sosteg­no di un’azione mil­itare, fre­gan­dosene invece in ogni altra cir­costan­za.

È evi­dente che questo approc­cio, in caso di bom­bar­da­men­to, non ren­derà meno tragiche le con­seguen­ze per la popo­lazione civile irachena. Può essere utile, però, per rib­altare il ragion­a­men­to di chi liq­ui­da come utopia l’op­po­sizione alla guer­ra. Il paci­fis­mo, infat­ti, non è astrat­to e utopis­ti­co in sé, ma è reso imprat­i­ca­bile dalle scelte con­crete di chi vuole che riman­ga tale. La vera utopia irre­al­iz­z­abile, sen­za se e sen­za ma, è invece quel­la del­l’am­min­is­trazione Usa e dei suoi alleati scod­in­zolan­ti, che pre­tendono di trovare negli arse­nali mil­i­tari la rispos­ta in gra­do di sradi­care il ter­ror­is­mo e zit­tire il mal­con­tento che ribolle in tut­to il mon­do.

Il caso di Saro-Wiwa e degli altri otto ogo­ni assas­si­nati dal silen­zio del­la Shell aiu­ta anche a com­pren­dere per­ché l’at­tuale movi­men­to per la pace coin­cide, in larga misura, con l’am­pio schiera­men­to di asso­ci­azioni, orga­niz­zazioni non gov­er­na­tive, sin­da­cati e sin­goli cit­ta­di­ni che negli ulti­mi anni han­no alza­to le loro voci per con­testare il pen­siero uni­co del­la glob­al­iz­zazione neoliberista. All’o­rig­ine di ques­ta con­ver­gen­za c’è infat­ti la con­vinzione che la strate­gia del­la guer­ra pre­ven­ti­va, inau­gu­ra­ta con­tro l’I­raq, rap­p­re­sen­ti il brac­cio arma­to di una oli­garchia che ha indi­vid­u­a­to nel neoliberis­mo il dog­ma da imporre a tut­ti i pae­si del mon­do, che essi lo vogliano o meno. Come è sem­pre più chiaro, si trat­ta di un mod­el­lo di orga­niz­zazione del­l’e­cono­mia e del­la soci­età che tende ad ampli­are il divario tra ric­chi e poveri all’in­ter­no delle soci­età occi­den­tali, così come tra i pae­si del Nord e del Sud del piane­ta, antepo­nen­do sis­tem­ati­ca­mente i prof­itti del­la grande indus­tria, e del­la ristret­ta elite che la dirige, agli inter­es­si col­let­tivi e ai dirit­ti dei sin­goli cit­ta­di­ni.

Dopo il col­las­so del­l’U­nione Sovi­et­i­ca e la fine del­la guer­ra fred­da, questo mod­el­lo sem­bra­va avere la stra­da spi­ana­ta davan­ti a sé, anche gra­zie alla promes­sa di esten­dere su scala glob­ale il benessere delle soci­età occi­den­tali. Ora che ques­ta promes­sa com­in­cia ad apparire per quel­lo che è — una bugia — e il ver­bo neoliberista mostra i seg­ni di una grave crisi, tra i suoi pred­i­ca­tori si fa sem­pre più stra­da la ten­tazione di annullare ogni for­ma di dis­senso, sia inter­no che ester­no, mostran­do i mus­coli del­la macchi­na mil­itare. È davvero para­dos­sale che i più infer­vo­rati ultrà del pen­siero uni­co nel momen­to del­la guer­ra invochi­no e pre­ten­dano da parte dei pro­pri concit­ta­di­ni il ser­rate le fila, in nome del­l’amor patrio e di ambigui inter­es­si nazion­ali. Patria e nazione sono infat­ti due ter­mi­ni che pro­prio loro han­no svuo­ta­to di sig­ni­fi­ca­to, in nome del prof­it­to e del­la trasfor­mazione del mon­do in un uni­co grande mer­ca­to.

È per l’in­sieme di queste ragioni che i ripetu­ti appel­li all’u­nità che pre­ce­dono l’ag­gres­sione mil­itare all’I­raq — provengano essi da Bush, Blair, Berlus­coni o chic­ches­sia — sono des­ti­nati a fare un buco nel­l’ac­qua. Non esiste infat­ti amor patrio o inter­esse nazionale che pos­sa spin­gere il popo­lo del­la pace a cam­biare idea rispet­to a ques­ta guer­ra, che res­ta assur­da, inutile e sbagli­a­ta. Alla fac­cia dei pres­ti­gia­tori del­la dis­in­for­mazione.

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