in Politica, Storia

In un peri­o­do come quel­lo attuale, carat­ter­iz­za­to da una grande dis­af­fezione nei con­fron­ti del­la polit­i­ca, per­son­ag­gi come Ser­afi­no Cora­da e Mario Cop­pet­ti ci ricor­dano quel­lo che è sta­ta nel cor­so del ven­tes­i­mo sec­o­lo. Nati entram­bi alla vig­ilia del­l’avven­to al potere del fas­cis­mo nel nos­tro Paese, come molti del­la loro gen­er­azione furono costret­ti a com­piere una scelta di cam­po. Cora­da e Cop­pet­ti scelsero di schier­ar­si con­tro il regime di Mus­soli­ni, e fu una scelta che pagarono entram­bi: Cora­da con la pri­gione pri­ma e il cam­po di con­cen­tra­men­to poi, Cop­pet­ti con l’e­silio a Pari­gi negli anni prece­den­ti lo scop­pio del­la sec­on­da guer­ra mon­di­ale e con una vita sot­to il con­trol­lo costante del­la polizia polit­i­ca una vol­ta rien­tra­to in Italia.

Di fronte alla minac­cia rap­p­re­sen­ta­ta dal fas­cis­mo, per loro che non con­di­vide­vano l’ide­olo­gia del regime abbrac­cia­re la polit­i­ca atti­va fu dunque un pas­sag­gio qua­si obbli­ga­to. Ma la loro pas­sione per la polit­i­ca, inte­sa sia come ide­olo­gia sia come ges­tione del­la cosa pub­bli­ca, non si esaurì con il cre­pus­co­lo di Mus­soli­ni. Al con­trario, sia Cop­pet­ti che Cora­da fin dai pri­mi anni del dopoguer­ra con­tin­uarono l’im­peg­no che li ave­va visti pro­tag­o­nisti negli anni del­la giovinez­za: il pri­mo come vicesin­da­co e asses­sore del Comune di Cre­mona per tre leg­is­la­ture, schier­a­to nelle file dei social­isti, il sec­on­do a Castelleone come con­sigliere comu­nale indipen­dente, ma vici­no al Par­ti­to Comu­nista pri­ma e ai Ds poi, per qua­si mez­zo sec­o­lo, fino all’ul­ti­ma tor­na­ta elet­torale.

La loro, dunque, è anche la sto­ria del­la sin­is­tra e delle sue due ani­me, quel­la comu­nista e quel­la social­ista, com­pagne di stra­da fino a qualche anno dopo la cadu­ta del fas­cis­mo, pri­ma di imboc­care due strade diver­gen­ti. Un divorzio i cui strasci­chi sono tut­to­ra ben vis­i­bili nelle vicende politiche dei nos­tri giorni, che pos­si­amo com­pren­dere nel­la loro interez­za solo man­te­nen­do viva la memo­ria di quel­lo che è sta­to. È pro­prio questo l’o­bi­et­ti­vo che ci siamo posti con la serie di inter­viste ai “patri­archi” del­la nos­tra provin­cia che ha pre­so il via la scor­sa set­ti­mana.

Serafino Corada, dalla tipografia al fronte

A 18 anni la vita di Ser­afi­no Cora­da (anzi Cor­ra­da, fino a quan­do negli anni Set­tan­ta l’er­rore di un buro­crate non elim­inò per sem­pre una erre) era scan­di­ta dal lavoro. Di giorno alla tipografia Son­zog­no, in via Passerel­la, pro­prio dietro il Duo­mo di Milano. La sera in un’al­tra tipografia milanese, la San­gal­li di via Verzieri, i cui pro­pri­etari gli davano la pos­si­bil­ità di dormire in una sof­fit­ta. Una vita molto dura ma ric­ca di sod­dis­fazioni per il gio­vane Ser­afi­no, che dopo le scuole ele­men­tari fre­quen­tate a Castelleone, il suo paese natio, ave­va subito com­in­ci­a­to a lavo­rare tra il piom­bo e le lino­type delle vec­chie tipografie, impara­n­do ad apprez­zare insieme alle tec­niche del­la stam­pa, anche la cul­tura che i pochi anni di scuo­la non gli ave­vano potu­to trasmet­tere.

Tut­to questo venne scom­pag­i­na­to dal­l’in­gres­so in guer­ra del­l’I­talia nel 1940. A 20 anni, infat­ti, Ser­afi­no dovette spogliar­si del­la divisa da tipografo per indos­sare l’u­ni­forme da solda­to, sped­i­to in Sicil­ia con il quin­to reg­g­i­men­to fan­te­ria “Aos­ta”. La sua odis­sea, come quel­la di migli­a­ia di altri sol­dati ital­iani, com­in­ciò dopo l’armistizio dell’8 set­tem­bre del 1943. Arriva­to a pochi chilometri da casa, infat­ti, venne bloc­ca­to a Cre­mona dalle SS e rinchiu­so insieme ad altri com­pag­ni di viag­gio nel­l’ex zuc­cher­i­fi­cio.

«Sono rius­ci­to a scap­pare solo gra­zie all’aiu­to di un medico — rac­con­ta Cora­da — ma a Cre­mona ero ricer­ca­to, per­ciò sono anda­to a Pia­cen­za e sono entra­to nel­la pri­ma divi­sione par­ti­giana di “Gius­tizia e Lib­ertà” del coman­dante Faus­to Cos­so. Insieme a me c’er­a­no molti altri di Castelleone. Io sono entra­to a far parte del­la redazione del “Gri­do del Popo­lo”, un gior­nale diret­to dal pro­fes­sor Roc­ca sulle alture di Pianel­lo Valti­done».

Un grande ras­trel­la­men­to diret­to dai fascisti, però, fece dis­perdere la divi­sione e costrinse di nuo­vo alla fuga il gio­vane Ser­afi­no, che pri­ma si rifugiò sul monte San­ta Fran­ca, poi scese a valle pas­san­do da Caor­so e cer­can­do di vol­ta in vol­ta aiu­to da parte dei preti. Arriva­to fino al ponte sul Po, nascos­to su un car­ro sot­to delle fascine, riuscì a var­care il fiume unen­dosi a un grup­po di lavo­ra­tori diret­to a Casal­puster­len­go. «Ero ammala­to, ave­vo la feb­bre a 40, ma per for­tu­na un uomo riuscì ad arrivare a Castelleone e ad avvis­are mio padre, che venne a recu­per­ar­mi a Casal­puster­len­go con il car­ro e il tabar­ro. Arriva­to a Castelleone, però, qual­cuno deve aver­mi nota­to, per­ché feci appe­na in tem­po a scap­pare subito a Trigo­lo, e poi di nuo­vo a Pia­cen­za per unir­mi di nuo­vo alla Resisten­za».

Nel dicembre del 1944 l’arresto e la prigionia

L’odis­sea di Cora­da, però, era anco­ra lon­tana dal suo epi­l­o­go. Nel dicem­bre del 1944, durante un breve ritorno a Castelleone venne arresta­to e rinchiu­so nelle carceri giudiziarie di via Jaci­ni. «Nelle can­tine — pre­cisa — per­ché erava­mo trop­pi». Gli inter­roga­tori avveni­vano pres­so il Palaz­zo del­la Riv­o­luzione ed era­no «tristi». Cora­da usa solo questo agget­ti­vo per descriver­li, evi­tan­do di scen­dere nei par­ti­co­lari di una vicen­da che evi­den­te­mente lo tur­ba anco­ra. Il 27 dicem­bre alcu­ni detenu­ti, tra cui lo stes­so Ser­afi­no, ven­nero trasfer­i­ti nelle carceri di Bres­cia, anti­cam­era del­la depor­tazione in cam­po di con­cen­tra­men­to. Cora­da finì in quel­lo di Dob­bi­a­co, ai pie­di delle Dolomi­ti.

«Erava­mo cir­ca in 300 e le con­dizioni di vita era­no incred­i­bili — rac­con­ta oggi, amareg­gia­to dal fat­to che nes­suno par­li mai di quel cam­po di con­cen­tra­men­to — Pas­sava­mo le gior­nate a scav­are delle buche di dife­sa per i tedeschi ogni 20 metri, lun­go la stra­da per Corti­na d’Am­pez­zo, con la neve alta un metro. Appe­na arrivati ci han­no mes­so in fila e sul piaz­za­le han­no por­ta­to due barelle, con sopra due ragazzi con le gambe frat­turate. Ci han­no spie­ga­to che quel­la era la fine che face­va chi cer­ca­va di scap­pare. Sul­la giac­ca ci han­no dis­eg­na­to una grossa “G” che sig­nifi­ca­va “Gef­fanghen”, pri­gion­iero, e sem­pre con la pit­tura ci han­no dip­in­to due righe rosse sui pan­taloni. Quan­do lavo­rava­mo lun­go la stra­da, vesti­ti in quel modo, gli abi­tan­ti del Cadore che tran­si­ta­vano ci davano un po’ di pane, ma i tirole­si ci tira­vano i sas­si. L’uf­fi­ciale coman­dante del cam­po era un ubri­a­cone che la sera entra­va nelle nos­tre barac­che e spar­a­va dei colpi di pis­to­la con­tro il sof­fit­to».

Furono le truppe amer­i­cane a met­tere fine a questo incubo, l’8 mag­gio del 1945. E sem­pre loro trasportarono a casa i pri­gion­ieri rinchiusi nel cam­po di Dob­bi­a­co. Com­pre­so Ser­afi­no Cora­da, che fece ritorno a Castelleone, dan­dosi subito all’at­tiv­ità polit­i­ca. «Nel ’46 mi ero iscrit­to al Par­ti­to Repub­bli­cano Ital­iano di Vit­to­rio Dot­ti, ma me ne andai quan­do lessi una sua dichiarazione sul­la “Provin­cia” in cui dice­va di con­di­videre l’at­tiv­ità di Petain. Da allo­ra non mi sono mai più iscrit­to a nes­sun par­ti­to, ma dal ’50 sono sta­to nel con­siglio comu­nale di Castelleone come rap­p­re­sen­tante indipen­dente del­la sin­is­tra».

Nel giug­no del­lo scor­so anno, dopo qua­si mez­zo sec­o­lo come con­sigliere comu­nale, la pri­ma esclu­sione, con l’en­nes­i­ma rielezione man­ca­ta per un solo voto di scar­to. Ma Cora­da nega di esser­ci rimas­to male: «Ho pas­sato così tan­ti anni in con­siglio che pri­ma o poi dove­va suc­cedere». Gli è sen­z’al­tro dispiaci­u­to di più non essere rius­ci­to a con­vin­cere suo figlio, l’at­tuale pres­i­dente del­la Provin­cia, a lavo­rare con lui in tipografia. «Ma — assi­cu­ra — mi ha comunque dato molte sod­dis­fazioni».

Fini­ta la guer­ra, Ser­afi­no Cora­da si pre­sen­tò subito alla Son­zog­no di Milano con la sper­an­za di pot­er ripren­dere il lavoro da tipografo che era sta­to costret­to ad abban­donare per entrare nel­l’e­serci­to. L’ed­i­fi­cio, però, era sta­to bom­barda­to e la tipografia riprese l’at­tiv­ità solo diver­si anni più tar­di. Così Cora­da si arrangiò per qualche anno lavo­ran­do come com­mer­ciante con il fratel­lo. Poi nel 1957 acquistò una vec­chia tipografia a Castelleone, la stes­sa in cui si reca tut­to­ra ogni giorno. Si chia­ma “Tipos­tile” e ha sfor­na­to anche i 27 lib­ri che lo stes­so Cora­da ha pub­bli­ca­to dal 1958 a oggi, trasfor­man­dosi in una vera e pro­pria memo­ria stor­i­ca di Castelleone. Una memo­ria stor­i­ca che alcu­ni anni fa ha dato vita anche al “Grup­po Teatrale Dialet­tale” che con­tin­ua a oper­are all’om­bra del Tor­raz­zo

Mario Coppetti e l’esilio parigino

Scul­tura e polit­i­ca. Queste le due gran­di pas­sioni del­la vita di Mario Cop­pet­ti. La polit­i­ca era una sor­ta di ered­ità di famiglia. Cop­pet­ti, nato a Cre­mona nel 1913, era figlio di un fer­roviere sosten­i­tore di Leoni­da Bis­so­lati e dei social­isti riformisti, e fin da gio­vane ave­va fre­quen­ta­to ambi­en­ti che nul­la ave­vano a che fare con il fas­cis­mo. L’amore di Cop­pet­ti per la scul­tura, invece, era sboc­cia­to negli anni del­la scuo­la ele­mentare. Durante i tre mesi delle vacanze estive, infat­ti, lavo­ra­va per un marmista, e più tar­di, con il sosteg­no dei gen­i­tori, decise di fre­quentare la scuo­la d’arte del­l’Ala Pon­zone, e una vol­ta com­ple­tati gli stu­di com­in­ciò a lavo­rare con lo scul­tore Ruffi­ni.

La pri­ma grande svol­ta del­la sua vita risale però al 1935. «Sta­va com­in­cian­do la guer­ra d’Abissinia — rac­con­ta — così io, che non ero mai sta­to fascista, decisi di andarmene in Fran­cia. All’inizio non fu facile e vi furono dei momen­ti duri, per­ché ero anda­to un po’ all’avven­tu­ra, ma in segui­to riuscii a trovare lavoro come scul­tore e le cose si mis­ero meglio». La cap­i­tale francese rap­p­re­sen­ta­va l’am­bi­ente ide­ale per un artista come Cop­pet­ti, che dopo aver appro­fon­di­to la conoscen­za dei gran­di scul­tori d’oltralpe, e in par­ti­co­lare di Rodin, eseguì varie scul­ture, in par­ti­co­lare ritrat­ti. Come quel­lo di Car­lo Rossel­li, il fonda­tore del movi­men­to “Gius­tizia e Lib­ertà”, che Cop­pet­ti ave­va conosci­u­to per­sonal­mente poco pri­ma che fos­se assas­si­na­to insieme al fratel­lo da ter­ror­isti di estrema destra, nel giug­no del 1937.

Nel suo ricor­do di Rossel­li, pro­nun­ci­a­to nel novem­bre scor­so nel­l’ex chiesa di San Vitale, in occa­sione del­la man­i­fes­tazione per il cen­te­nario del­la nasci­ta, lo scul­tore cre­monese, che è anche pres­i­dente del­l’As­so­ci­azione Nazionale Par­ti­giani di Cre­mona, ha ricorda­to così il suo incon­tro con il leader antifascista: «Una mat­ti­na dei pri­mi di giug­no, come altre volte in prece­den­za, vado con Amigo­ni e l’Ausen­da, entram­bi fuo­rius­ci­ti cre­mone­si, pres­so la sede di “Gius­tizia e Lib­ertà” in Boule­vard Saint Michel, e lì incon­tri­amo con altri Car­lo Rossel­li, appe­na rien­tra­to dal fronte di Huesca [in Spagna, ndr]. Ci fer­mi­amo un po’ in quel gran stan­zone pieno di gior­nali e pac­chi di stam­pa antifascista, e poi usci­amo tut­ti insieme per andare a pran­zo in un pic­co­lo ris­torante vici­no al gia­rdi­no del Lux­em­bourg. Dopo un breve trat­to di stra­da Rossel­li si ricor­da di aver dimen­ti­ca­to di pren­dere delle pub­bli­cazioni. Allo­ra, men­tre gli altri van­no avan­ti, io ritorno con lui in sede. Ram­men­to anco­ra con quale inter­esse mi chiese del­la situ­azione in Italia. Era par­ti­co­lar­mente inter­es­sato a capire cosa pen­sa­vano i gio­vani in Italia, quale era l’ef­fet­to che la guer­ra di Spagna ave­va su di loro, e a chieder­si quel­lo che dal­l’es­tero avrem­mo potu­to fare. Men­tre tor­nava­mo dagli ami­ci mi disse che fra qualche giorno sarebbe anda­to fuori Pari­gi per curar­si. Non l’avrei mai più riv­is­to».

Due anni dopo, Cop­pet­ti fu col­pi­to dal­la pleu­rite e venne ricov­er­a­to per due mesi in ospedale. Nel frat­tem­po, nel set­tem­bre del ’39 era scop­pi­a­ta la guer­ra tra Fran­cia e Ger­ma­nia, e lo scul­tore cre­monese, che dove­va restare in con­va­lescen­za per sei mesi, decise di rien­trare a Cre­mona. Era il dicem­bre del 1939. Fu un rien­tro trau­mati­co: gli agen­ti del­l’Ovra (Opera Vig­i­lan­za Repres­sione Antifascista), la famiger­a­ta polizia polit­i­ca agli ordi­ni di Mus­soli­ni, riti­rarono subito il pas­s­apor­to a Cop­pet­ti, che vide così pregiu­di­cate defin­i­ti­va­mente le pos­si­bil­ità di un suo ritorno in Fran­cia, dove ave­va las­ci­a­to tut­to quel­lo che possede­va, com­pre­so lo stu­dio da scul­tore. «Sono tor­na­to là dopo la guer­ra — spie­ga — ma non era rimas­to più nul­la».

Sorveg­lia­to costan­te­mente dal­la polizia, che ogni tan­to gli inti­ma­va di pre­sen­tar­si in Ques­tu­ra per accer­ta­men­ti, per pot­er cam­pare com­in­ciò a inseg­nare dis­eg­no e plas­ti­ca alla scuo­la di liu­te­ria. «Tra i miei allievi — ricor­da oggi — c’era anche Andrea Mosconi, l’at­tuale respon­s­abile del­la collezione stradi­var­i­ana del Comune». Suc­ces­si­va­mente Cop­pet­ti pros­eguì l’in­seg­na­men­to al liceo sci­en­tifi­co fino al 1975, sen­za mai abban­donare l’at­tiv­ità di scul­tore, che pros­egue anco­ra oggi, a 87 anni, nel­la sua abitazione di via Chiara Novel­la, affol­la­ta da opere di tutte le fogge, che ritrag­gono per­sone, sim­boli sac­ri, nudi e ani­mali.

Nel dopoguerra l’esperienza in Comune

Con la fine del­la guer­ra e la scon­fit­ta finale del fas­cis­mo, Mario Cop­pet­ti ebbe final­mente la pos­si­bil­ità di tornare all’at­tiv­ità polit­i­ca atti­va. Il Paese era dis­trut­to, e c’er­a­no da costru­ire le fon­da­men­ta di uno sta­to demo­c­ra­ti­co. Dopo la cadu­ta del regime, però, ven­nero presto a gal­la le diver­gen­ze di vedute nel fronte del­la sin­is­tra, e quan­do ci fu da scegliere tra Nen­ni e Sara­gat Cop­pet­ti scelse di andare con quest’ul­ti­mo nel par­ti­to Socialde­mo­c­ra­ti­co. Il suo ritorno all’in­ter­no del Par­ti­to Social­ista risale alla metà degli anni Cinquan­ta e poco dopo, nel 1957, entrò per la pri­ma vol­ta in Comune, come vicesin­da­co e asses­sore all’ur­ban­is­ti­ca e ai lavori pub­bli­ci nel­la Giun­ta di Fer­aboli.

«Il mio ricor­do del­l’es­pe­rien­za ammin­is­tra­ti­va in Comune è pos­i­ti­vo — spie­ga Cop­pet­ti — I comu­nisti come ammin­is­tra­tori era­no otti­mi. Di loro ci si pote­va fidare. Del resto io ho sem­pre det­to che con i comu­nisti si pote­vano fare tran­quil­la­mente le giunte comu­nali e provin­ciali, ma guai a con­cedere loro dei min­is­teri. Bisogna ricor­dare che allo­ra la Rus­sia face­va pau­ra, anche per­ché era sot­to gli occhi di tut­ti quel­lo che suc­cede­va nei Pae­si del­l’Est europeo. Purtrop­po anche noi social­isti erava­mo guar­dati con sospet­to, e non man­ca­va chi semi­na­va ziz­za­nia al nos­tro inter­no, sal­vo poi pas­sare nelle fila del Par­ti­to Comu­nista. Io sono anco­ra social­ista, cre­do anco­ra alle idee del social-riformis­mo, anche se nel par­ti­to spes­so veni­vo emar­gina­to come “socialde­mo­c­ra­ti­co”. Adesso, invece, sono i comu­nisti a fare i socialde­mo­c­ra­ti­ci».

L’es­pe­rien­za ammin­is­tra­ti­va di Cop­pet­ti durò lo spazio di tre man­dati. Dopo la Giun­ta di sin­is­tra con Fer­aboli, lo scul­tore cre­monese man­tenne gli stes­si incar­ichi di vicesin­da­co e asses­sore nelle due leg­is­la­ture suc­ces­sive, nelle Giunte rette dal democris­tiano Ver­naschi dal ’61 al ’69. «Allo­ra il con­siglio comu­nale con­ta­va — com­men­ta Cop­pet­ti — Oggi, invece, il sin­da­co è un podestà che può fare ciò che vuole. Allo­ra la situ­azione era sen­z’al­tro migliore rispet­to a quel­la attuale per­ché il dibat­ti­to sulle ques­tioni ammin­is­tra­tive por­ta­va alla medi­azione e all’ac­cogli­men­to delle idee del­la mino­ran­za. Una vol­ta la polit­i­ca era pas­sione, con­vinzione, oggi c’è trop­po trasformis­mo e non mi sor­prende che la gente non abbia più fidu­cia nelle isti­tuzioni e nel­la polit­i­ca. È una cosa che con­sidero estrema­mente grave, ma quan­do si chia­mano gli elet­tori a esprimer­si su una ques­tione e poi si igno­ra com­ple­ta­mente la loro volon­tà, come accadu­to a Cre­mona con il ref­er­en­dum di qualche anno fa sul­l’incener­i­tore, è inevitabile che i cit­ta­di­ni per­dano inter­esse nel­la polit­i­ca. Così si dis­trugge la fidu­cia nel­la democrazia, e ricon­quis­tar­la è dif­fi­cilis­si­mo».

Cop­pet­ti, all’inizio degli anni Set­tan­ta, fu anche il pri­mo pres­i­dente delle Autostrade Cen­tro Padane e parte­cipò in pri­ma per­sona nel decen­nio prece­dente alla lun­ga trafi­la per ottenere i presti­ti e i mutui che avreb­bero con­sen­ti­to di real­iz­zare l’au­tostra­da, l’ul­ti­ma grande opera infra­strut­turale, come si sente ripetere spes­so, real­iz­za­ta nel­la nos­tra provin­cia. «Abbi­amo dovu­to vin­cere molte resisten­ze per con­vin­cere i cre­mone­si del­l’im­por­tan­za del­l’au­tostra­da — spie­ga Cop­pet­ti — Era­no in molti, infat­ti, a dirci “Ma cosa la fate a fare l’au­tostra­da? Per fare un piacere ad Agnel­li?”». Una bat­tuta che per Cop­pet­ti è riv­e­la­trice del­la natu­ra fon­da­men­tal­mente autole­sion­ista dei cre­mone­si: «C’è un cli­ma da pae­sot­to e man­ca una cul­tura impren­di­to­ri­ale. Se uno proviene da fuori è osan­na­to, ma tra i cre­mone­si c’è invidia, rival­ità, e non mi sem­bra che le cose stiano cam­bian­do. Il prob­le­ma, lo ripeto, è che man­ca il coin­vol­gi­men­to del­la comu­nità nelle deci­sioni».

Arti­co­lo pub­bli­ca­to l’11 feb­braio 2000 su Nuo­va Cronaca, nel­l’am­bito di una serie di inter­viste ai “patri­archi” del ter­ri­to­rio, ovvero per­son­ag­gi che han­no seg­na­to la sto­ria del­la provin­cia di Cre­mona in vari set­tori

Arti­co­lo pub­bli­ca­to anche su Medi­um

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