in Storia

I “patri­archi”, ovvero l’es­pe­rien­za al servizio delle gen­er­azioni future. Ernesto Cervi Cibol­di ed Enri­co “Kiro” Fogli­az­za, ovvero due tes­ti­moni del­la cam­pagna cre­monese che non c’è più. Il pri­mo figlio di un fit­ta­bile diven­ta­to in segui­to pro­pri­etario delle terre colti­vate. Il sec­on­do figlio di un bergamino rimas­to bergamino per tut­ta la vita, e costret­to dalle “dis­dette” a con­tinui pel­le­gri­nag­gi alla ricer­ca di un nuo­vo pos­to di lavoro nelle cascine del­la provin­cia, da Castelleone a Por­cel­las­co, da Por­cel­las­co a Gade­sco, da Gade­sco a Bar­bi­selle…

Cresciu­ti entram­bi nel­lo stes­so ambi­ente, quel­lo del­la cam­pagna cre­monese a cav­al­lo tra le due guerre mon­di­ali, ma con prospet­tive e pos­si­bil­ità assai diverse. E diver­so è anche il ricor­do che han­no con­ser­va­to di quegli anni: seg­nati dagli sten­ti e dal­l’arte di arran­gia­r­si quel­li di Fogli­az­za, che fece di tut­to per affran­car­si dal des­ti­no di con­tadi­no, carat­ter­iz­za­ti invece da un amore smisura­to per la cam­pagna quel­li di Cervi Cibol­di, che par­la del­l’a­gri­coltura di quel peri­o­do come di «un vero e pro­prio cap­ola­voro sen­za eguali al mon­do».

Da entram­bi i rac­con­ti emerge un’im­mag­ine ingial­li­ta del­la nos­tra provin­cia che rischia di essere can­cel­la­ta per sem­pre dal­l’oblio, favorito dal­l’at­teggia­men­to dom­i­nante nel mon­do con­tem­po­ra­neo, costan­te­mente proi­et­ta­to ver­so il futuro e un po’ trop­po pre­cip­i­toso nel liq­uidare il pas­sato insieme ai suoi inseg­na­men­ti. Un’at­teggia­men­to che non piace per niente a Kiro Fogli­az­za, che ha vis­su­to sul­la pro­pria pelle l’es­pe­rien­za del fas­cis­mo, e che a 80 anni nel­l’asce­sa in Aus­tria del leader ultra­nazion­al­ista Joerg Haider tor­na a intravedere gli spet­tri di un pas­sato che cre­de­va, o almeno sper­a­va, fos­se defin­i­ti­va­mente sepolto.

Di fronte alla ten­tazione, purtrop­po molto di moda in Italia, di voltare defin­i­ti­va­mente pag­i­na, tiran­do una riga su quel­lo che è sta­to, l’e­sem­pio di Enri­co Fogli­az­za e Ernesto Cervi Cibol­di è sig­ni­fica­ti­vo. Con il loro com­por­ta­men­to, infat­ti, ci inseg­nano che pos­si­amo guardare avan­ti sen­za dover per forza dimen­ti­care le impor­tan­ti lezioni ered­i­tate dal pas­sato.

Fogliazza: «Io, cittadino di serie B nell’Italia fascista»

Il padre era bergamino, con­tin­u­a­mente sot­to­pos­to alla minac­cia del­la “dis­det­ta” e del San Mar­ti­no, ovvero al licen­zi­a­men­to e alla neces­sità di un penoso pel­le­gri­nag­gio di casci­na in casci­na per cer­care un’al­tra occu­pazione. Lui era il ses­to di dieci fratel­li, in una famiglia di quelle belle numerose come piace­vano a Mus­soli­ni, che ave­va bisog­no di baionette per fare la guer­ra e trasfor­mare in realtà il prog­et­to di un’I­talia impe­ri­ale. Il suo des­ti­no sem­bra­va seg­na­to dal­l’ine­lut­ta­bil­ità del­la vita nei campi, a spac­car­si la schiena per mietere il gra­no, e nelle stalle a mun­gere le vac­che, ma le cose per Enri­co Fogli­az­za andarono diver­sa­mente.

Mer­i­to dei gen­i­tori, che assec­on­darono la sua voglia di pros­eguire gli stu­di una vol­ta con­cluse le scuole ele­men­tari, e mer­i­to anche del­la sua tena­cia di ragazz­i­no, dis­pos­to a subire gli sber­l­ef­fi dei com­pag­ni di scuo­la pur di evadere dal­l’am­bi­ente chiu­so rap­p­re­sen­ta­to dal­la casci­na. «In casci­na noi ragazzi cresce­va­mo in famiglia dan­do del “voi” ai gen­i­tori, che non ave­vano tem­po per curare i figli — spie­ga Fogli­az­za — Anche gli altri agri­coltori era­no poco cia­r­lieri, e non ci aiu­ta­vano a svilup­pare alcun sen­so criti­co. Non è un caso che dalle cascine non sia usci­to nes­sun per­son­ag­gio di rilie­vo sul piano cul­tur­ale». A scuo­la le cose non anda­vano molto meglio, ma almeno Enri­co pote­va entrare in con­tat­to con una realtà diver­sa da quel­la del­la cam­pagna: «A scuo­la cresce­va­mo come in una ser­ra. Tut­to era mira­to all’e­saltazione di Mus­soli­ni, ma non veni­va­mo “conci­mati” dal pun­to di vista cul­tur­ale».

Dopo aver fre­quen­ta­to le ele­men­tari, i pri­mi quat­tro anni al Maris­tel­la e la quin­ta a San Bernar­do, nel Palaz­zo Duemiglia, Fogli­az­za pros­eguì gli stu­di all’Ala Pon­zone di Cre­mona: «Sen­ti­vo un po’ l’u­mil­i­azione di con­tin­uare a essere man­tenu­to, anche se i miei fratel­li, che lavo­ra­vano già nei campi, non me lo face­vano pesare. La mia famiglia, però, era povera e non ave­va i sol­di per com­prare le scarpe o i pan­taloni, così dove­va­mo arran­gia­r­ci con quel­lo che c’era a dis­po­sizione. Gli zoc­coli me li costru­i­va mio padre, uti­liz­zan­do il leg­no degli alberi e dei cop­er­toni usati. Per andare a scuo­la, invece, uti­liz­za­vo una vec­chia bici­clet­ta da don­na. Quan­do arriva­vo a Cre­mona diven­ta­vo rosso, per­ché mi sen­ti­vo un cit­tadi­no di serie B e veni­vo pre­so in giro dai figli degli imp­ie­gati e degli operai, che pote­vano per­me­t­ter­si vesti­ti migliori. Nat­u­ral­mente non ero l’u­ni­co ragaz­zo di cam­pagna a essere in queste con­dizioni. Ricor­do che insieme ad altri davan­ti alla scuo­la osser­vava­mo i ragazzi di cit­tà acquistare la patu­na cal­da dagli ambu­lan­ti come colazione, che noi non pote­va­mo per­me­t­ter­ci. Il più delle volte ho sop­por­ta­to in silen­zio gli sber­l­ef­fi dei com­pag­ni, ma in qualche caso mi sono ribel­la­to rispon­den­do per le rime. La dis­tinzione e l’os­til­ità tra gli abi­tan­ti di cit­tà e quel­li del­la cam­pagna a quei tem­pi era piut­tosto mar­ca­ta, e col sen­no di poi sono con­vin­to che fos­se favorita dal fas­cis­mo per con­trol­lare meglio la soci­età, met­ten­do gli uni con­tro gli altri. Una polit­i­ca che era favorita anche dal­la asso­lu­ta man­can­za di infor­mazione. Radio e gior­nali, infat­ti, era­no sot­to il con­trol­lo del regime, la tele­vi­sione non c’era e anche la Chiesa, tranne qualche rara eccezione, era asservi­ta al potere».

Dalla campagna cremonese al Parlamento

La car­ri­era sco­las­ti­ca di Fogli­az­za si con­cluse a 13 anni, nel 1933. Stan­co di gravare sulle finanze famil­iari, decise infat­ti di com­in­cia­re a lavo­rare. Non in casci­na, però, ma come gar­zone di mura­tore, rig­orosa­mente in nero. Intan­to nelle cam­pagne era scop­pi­a­ta la tuber­colosi, che costrinse l’am­min­is­trazione provin­ciale a costru­ire dei sana­tori a Son­da­lo, Bor­no e Cre­mona. L’epi­demia era sta­ta favorita anche dalle cat­tive con­dizioni igien­iche in cui era­no costret­ti a vivere i con­ta­di­ni: «Gli agri­coltori ave­vano uti­liz­za­to i finanzi­a­men­ti rice­vu­ti dal­lo Sta­to per bonifi­care i ter­reni, ma non le case dei con­ta­di­ni, che veni­vano uti­liz­zate anche per all­e­vare i bachi da seta, il cui rica­va­to veni­va sud­di­vi­so a metà tra i padroni e i lavo­ra­tori», rac­con­ta Fogli­az­za, che nel luglio del 1937 venne ricov­er­a­to in ospedale, vit­ti­ma del tifo e del­la feb­bre pol­monare. «Nel giro di pochissi­mo tem­po ho per­so una trenti­na di chili, tan­to che i medici mi ave­vano dato per spac­cia­to, ma la mia fibra forte mi ha aiu­ta­to».

All’e­poca lavo­ra­va come for­naio, a Per­sichel­lo, e intan­to fre­quen­ta­va le scuole ser­ali gra­tu­ite di sto­ria e sten­o­dat­tilo­grafia. Ogni scap­pa­toia evi­den­te­mente era buona per uscire dal­l’iso­la­men­to del­la vita in casci­na. La malat­tia, però, lo obbligò a cer­care un altro lavoro. Impre­sa non facile in un’I­talia che spes­so pre­mi­a­va con un impiego sicuro i reduci delle sue cam­pagne colo­niali. Alla fine Fogli­az­za riuscì a rime­di­are un pos­to da fat­tori­no pres­so il Palaz­zo del­la Riv­o­luzione, sem­pre e rig­orosa­mente in nero, pri­ma di appro­dare, nel 1940, alla Ban­ca Popo­lare, dove mise a frut­to l’es­pe­rien­za mat­u­ra­ta nel­la ges­tione dei cen­trali­ni tele­foni­ci. È del 1943 la scelta des­ti­na­ta a cam­biare la sua vita: a 23 anni, infat­ti, decise di salire sulle mon­tagne per com­bat­tere insieme ai par­ti­giani. Fu in mon­tagna che Enri­co diven­tò Kiro e che imparò, come rac­con­ta oggi, «quel­lo che sot­to il fas­cis­mo era sta­to impos­si­bile impara­re».

Nel dopoguer­ra Kiro Fogli­az­za fu tra i fonda­tori del­la Feder­brac­cianti, il sin­da­ca­to che diede vita alle lotte di riven­di­cazione di mag­giori dirit­ti per i lavo­ra­tori agri­coli, sul­la fal­sari­ga delle battaglie con­dotte all’inizio degli anni Ven­ti dalle Leghe Bianche e Rosse, pri­ma del­la pre­sa del potere da parte dei fascisti. Nel 1953 venne elet­to in Par­la­men­to nelle file del Par­ti­to Comu­nista e vi rimase per due leg­is­la­ture, fino al 1963. Un’es­pe­rien­za che oggi ricor­da così: «Come quan­do anda­vo a scuo­la a Cre­mona da bam­bi­no, anche a Roma mi sen­ti­vo inadegua­to. Io, figlio di con­ta­di­ni, che non ero anda­to oltre il sec­on­do anno delle supe­ri­ori, mi trova­vo di fronte a per­son­ag­gi del cal­i­bro di Togli­at­ti, De Gasperi, Nen­ni, don Stur­zo e Benedet­to Croce…». Super­a­to lo shock, Fogli­az­za nel 1960 fu il rela­tore di una legge, la Fogli­az­za-Zani­bel­li, che decretò la costruzione nei vari vil­lag­gi di nuove abitazioni des­ti­nate ai con­ta­di­ni.

Cervi Ciboldi e l’agricoltura del Novecento

«Quan­do uno com­in­cia a lavo­rare in cam­pagna, viene pre­so da una specie di amante». Paro­la di Ernesto Cervi Cibol­di, tito­lare del­l’omon­i­ma impre­sa agri­co­la di Luig­nano, un paesino dalle par­ti di Ses­to, nel cuore del­la cam­pagna cre­monese. Un’af­fer­mazione che rispec­chia alla per­fezione l’es­pe­rien­za di questo agri­coltore che per motivi ana­grafi­ci, è nato nel 1916, ha vis­su­to in pri­ma per­sona le pro­fonde trasfor­mazioni che han­no cam­bi­a­to com­ple­ta­mente volto alla nos­tra agri­coltura nel cor­so del Nove­cen­to. Il suo è un rac­con­to che las­cia trasparire una grande nos­tal­gia per il pas­sato, ma anche la voglia di pen­sare al futuro. Non a caso Cervi Cibol­di è uno degli agri­coltori che parte­ci­pano con più atten­zione all’at­tuale dibat­ti­to sulle biotec­nolo­gie e sul­l’in­tro­duzione degli organ­is­mi geneti­ca­mente mod­i­fi­cati nelle colti­vazioni.

«Pri­ma del­la sec­on­da guer­ra mon­di­ale Cre­mona ave­va un sis­tema agri­co­lo sen­za eguali al mon­do — spie­ga — La rotazione set­ten­nale rap­p­re­sen­ta­va un vero e pro­prio cap­ola­voro del­l’a­grono­mia, in un quadro ambi­en­tale che era uno dei più bel­li che si pos­sono vedere. Il pae­sag­gio era dom­i­na­to dal­la pianta­ta ortog­o­nale, con i gel­si a con­tornare i campi come cor­ni­ci, e i pla­tani lun­go le rive dei fos­si. Il corre­do pae­sag­gis­ti­co del­la casci­na lom­bar­da per me rap­p­re­sen­ta­va il par­adiso ter­restre, ma era com­ple­ta­mente arti­fi­ciale e rispon­de­va in ogni suo aspet­to alle esi­gen­ze del­la gente che vive­va in casci­na. Come i gel­si, uti­liz­za­ti per i bachi da seta, o il leg­no delle piante, che ser­vi­va come com­bustibile per il riscal­da­men­to o per costru­ire gli arne­si del­la cam­pagna. Dopo la guer­ra tut­to è cam­bi­a­to: i con­ta­di­ni, che fino ad allo­ra era­no sta­ti pagati in parte in denaro e in parte con com­parte­ci­pazioni nei rac­colti, vol­e­vano essere ret­ribuiti soltan­to in denaro. Le mono­col­ture han­no sos­ti­tu­ito la rotazione set­ten­nale. Le vec­chie stalle non anda­vano più bene per la salute del per­son­ale e del bes­ti­ame. Il metano nelle case ha sos­ti­tu­ito la leg­na per il riscal­da­men­to. Il cemen­to arma­to ha pre­so il pos­to delle travi… Io ho tenu­to le piante, per­ché mi piac­ciono, ma nel­la mag­gior parte delle aziende non ce ne sono più. Ormai nel nos­tro pae­sag­gio sono rimaste poche piante di alto fus­to e arbusti dis­or­di­nati, che las­ciano ampi spazi sim­ili a lande deserte».

La casci­na cre­monese nel peri­o­do pre­bel­li­co rap­p­re­sen­ta­va il pun­to cen­trale di tutte le colti­vazioni ed era un uni­ver­so stac­ca­to e qua­si auto­suf­fi­ciente rispet­to all’ester­no. In alcu­ni casi ave­va le carat­ter­is­tiche del castel­lo, in altri, come a San Ger­va­sio, era orga­niz­za­ta come i pae­si, con annes­sa la chiesa e l’os­te­ria. Qualunque fos­se la strut­tura, però, vi era­no due porte: una che dava sul­la stra­da e una che por­ta­va ai campi. «In casci­na — spie­ga Cervi Cibol­di — non entra­va nul­la. I car­ri e i vari attrezzi uti­liz­za­ti nei campi o nelle stalle veni­vano costru­iti in azien­da e con quel­lo che chia­mava­mo “il Dio fil di fer­ro” si aggius­ta­va tut­to. Quel­lo del­la casci­na era un mon­do chiu­so di cui non è rimas­to nes­sun seg­no nel­l’arte o nel­la cul­tura: i cit­ta­di­ni, infat­ti, si ricor­da­vano del­l’a­gri­coltura solo quan­do dove­vano fare colazione».

Queste carat­ter­is­tiche sono state ben descritte da Cervi Cibol­di in una relazione ded­i­ca­ta al recu­pero e alla val­oriz­zazione del pat­ri­mo­nio edilizio: «La casci­na lom­bar­da — ha sot­to­lin­eato l’im­pren­di­tore agri­co­lo di Luig­nano — è sta­ta nel­l’a­gri­coltura l’e­spres­sione di un com­p­lesso fenom­e­no eco-socio-eco­nom­i­co che non ha eguali. In nes­suna parte del mon­do è venu­to a crear­si un sis­tema pro­dut­ti­vo così chiu­so come azien­da, come grup­po sociale, come com­p­lesso abi­ta­ti­vo, con strut­ture, stalle e fab­bri­cati, granai, fie­nili por­cili, barches­sali, tal­mente pro­porzionati alla super­fi­cie azien­dale e all’al­l­e­va­men­to da vin­co­lare la casci­na a una sua indi­vid­u­al­ità».

Ugual­mente uni­co è il regime irri­ga­to­rio, «com­pos­to nel cre­monese da una rete di 766 rogge che, come cap­il­lari, por­tano acqua in tutte le aziende sec­on­do turni e orari cod­i­fi­cati da dirit­ti sec­o­lari. Nem­meno altrove c’è esem­pio di rego­la­men­to dei rap­por­ti tra pro­pri­età e lavo­ra­tori basato su pat­ti coloni­ci che regola­vano i salari e le com­parte­ci­pazioni, gra­n­otur­co e boz­zoli, e la parte in natu­ra nel­l’am­bito dei dipen­den­ti, capo uomo o fat­tore, capos­tal­la, bergamino, capo cav­al­lante, bifol­co, cam­paro, i famigli che accu­d­i­vano ai buoi e ai cav­al­li».

Uno sce­nario, come det­to, rad­i­cal­mente muta­to al ter­mine del­la sec­on­da guer­ra mon­di­ale: «In ques­ta casci­na — con­fer­ma Cervi Cibol­di — pri­ma del­la guer­ra c’er­a­no sette-otto famiglie, adesso non è rimas­to più nes­suno ed è dif­fi­cile rius­cire a trovare il per­son­ale. Nel dopoguer­ra una delle pau­re più grosse non era tan­to quel­la degli scioperi, ma quel­la dei con­ta­di­ni che da un giorno all’al­tro si pre­sen­ta­vano per dire che anda­vano a Milano a lavo­rare nel­l’in­dus­tria. L’a­gri­coltura è rius­ci­ta a tam­ponare le falle solo gra­zie alla tec­nolo­gia, che un po’ alla vol­ta ha motor­iz­za­to tut­to, con­sen­ten­do a poche per­sone di fare il lavoro che pri­ma richiede­va una man­od­opera molto numerosa. Allo stes­so tem­po lo svilup­po del­la genet­i­ca ha trasfor­ma­to il mais nel­la pianta più impor­tante».

Una dinastia di agricoltori tra Campo di Ferro e Luignano

La vita di Ernesto Cervi Cibol­di è lega­ta a doppio filo a quel­la del­la cam­pagna cre­monese. Entram­bi i gen­i­tori, infat­ti, proveni­vano da famiglie di fit­ta­bili che in segui­to ave­vano acquis­ta­to i ter­reni che colti­va­vano. Il ramo mater­no, quel­lo dei Cibol­di, era orig­i­nario del Soresinese e suc­ces­si­va­mente si era trasfer­i­to a Luig­nano, dove il non­no di Ernesto, Pao­lo, fece costru­ire chiesa e asi­lo. Il ramo pater­no, quel­lo dei Cervi, proveni­va invece da Polen­go e nel 1900 si era trasfer­i­to a Cam­po di Fer­ro, nei pres­si di Casal­but­tano, dove vive tut­to­ra Fran­co, fratel­lo di Ernesto.

Dopo aver fre­quen­ta­to il liceo sci­en­tifi­co a Cre­mona, Cervi Cibol­di studiò a Milano, alla facoltà di agraria, dove si lau­reò nel 1941 in chim­i­ca e bat­te­ri­olo­gia. Suc­ces­si­va­mente entrò nel­l’e­serci­to come allie­vo uffi­ciale di cav­al­le­ria, a Pinero­lo, ma in segui­to, durante la guer­ra, ottenne una licen­za per tornare a Par­ma e com­pletare la sua sec­on­da lau­rea in med­i­c­i­na vet­eri­nar­ia. «Fini­ta la sec­on­da guer­ra mon­di­ale — ricor­da oggi — andai a Milano, dal mio pro­fes­sore Arnau­di, per chieder­gli di fer­mar­mi a lavo­rare in uni­ver­sità. Lui mi disse: guar­da qui com’è tut­to rov­ina­to e dis­trut­to. Vai a casa ad aiutare tuo padre». Così fece, e da allo­ra la sua vita è rimas­ta lega­ta a doppio filo all’azien­da di Luig­nano.

Cervi Cibol­di com­men­ta anche la lot­ta por­ta­ta avan­ti dalle Leghe Bianche di Gui­do Migli­oli all’inizio degli anni Ven­ti: «Migli­oli ave­va ragione a difend­ere le posizioni dei con­ta­di­ni. Anch’io che sono nato in cam­pagna e da ragaz­zo sono sem­pre sta­to nei campi a fal­cia­re e a portare a casa l’er­ba, mi ren­de­vo con­to delle loro pes­sime con­dizioni di vita. Ma come uomo politi­co Migli­oli non ave­va capi­to che il prob­le­ma era più in alto. Tutte le dis­cus­sioni legate alle lotte sociali si sono sem­pre fer­mate di fronte alla neces­sità di avere una diri­gen­za cen­tral­iz­za­ta che dà gli ordi­ni. Un’azien­da agri­co­la non può essere gesti­ta in modo asso­ci­a­to: serve qual­cuno che si pren­da la respon­s­abil­ità delle deci­sioni e, se sbaglia, paghi. Tut­ti si sono scagliati con­tro le con­dizioni delle case dei con­ta­di­ni, ma come face­va a quei tem­pi un’azien­da di mille per­tiche a dare ai suoi dipen­den­ti delle abitazioni con tutte le comod­ità?».

Arti­co­lo pub­bli­ca­to il 4 feb­braio 2000 su Nuo­va Cronaca, nel­l’am­bito di una serie di inter­viste ai “patri­archi” del ter­ri­to­rio, ovvero per­son­ag­gi che han­no seg­na­to la sto­ria del­la provin­cia di Cre­mona in vari set­tori

Arti­co­lo pub­bli­ca­to anche su Medi­um

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